Questo post fa seguito a Vizi e pregiudizi #1.
Un altro forte deterrente nella scelta di un regalo per un bambino dai 6 agli 8 anni è il numero delle pagine. Dopo aver superato l’ostacolo della lettura autonoma e aver deciso che il libro può ancora essere letto insieme ad un adulto, si presenta l’ostacolo del “libro lungo”. Questo è un punto focale perché qui la lotta o si vince o si perde e non si fanno prigionieri.
Da buona lettrice so che ciò che fa la differenza non è il numero delle pagine, ma la vicenda narrata, come viene narrata, i contenuti che veicola e lo stile della scrittura.
Il problema del numero delle pagine, insieme a quello della mancanza di illustrazioni, si pone anche con i lettori al di sotto dei 6 anni (e qui la battaglia è ancora più dura); entrambi questi aspetti sono inestricabilmente legati tra loro e qui di seguito vorrei provare ad illustrarvi perché ritengo di fondamentale importanza riavvicinare i bambini alla bellezza delle parole.
Questione d’orecchio
Per quanto io sostenga la bellezza dell’albo illustrato e allestisca Radice-Labirinto con una ricca e curata selezione di albi anche stranieri, sono sempre più convinta che questo linguaggio iconico e testuale debba essere integrato, fin dai primi mesi di vita, con la lettura di libri composti da sole parole.
Si tende a dire che nella nostra contemporaneità il linguaggio visivo predomini sul linguaggio scritto, ma questo non è del tutto corretto: la scrittura è un segno che va interpretato correttamente per essere inteso. La scrittura, o meglio, i segni della scrittura rientrano a tutti gli effetti nella categoria iconica e sono indispensabili per prendere coscienza dei messaggi che un testo veicola.
Quello che oggi predomina è la stupefacente fusione tra segni e immagini e, in questo senso, l’albo illustrato è perfettamente in linea con il suo tempo. Siamo diventati abili, come esseri narranti, a prendere possesso delle immagini che ci vengono proposte, ma contrariamente a quanto avveniva in passato – e penso, per esempio, all’uso della simbologia iconica nei dipinti medievali e rinascimentali – non ne siamo quasi mai consapevoli; non sappiamo dire perché un’immagine risulti più efficace di un’altra o perché una ci attrae e un’altra ci respinge. In una società come la nostra risultiamo essere, più che degli analfabeti iconici, degli idiots savants, ovvero non sappiamo di sapere.
Un esempio lampante di questa schizofrenia è data dalla diffidenza che molti adulti hanno verso i libri senza parole. Il motivo di questa riluttanza a leggere le figure senza l’aiuto di un testo scritto sta da un lato nell’incapacità di approcciarsi con consapevolezza alle immagini, e dall’altro dalla convinzione che l’oggetto libro, per definirsi tale, debba possedere parole, ovvero segni grafici che se correttamente interpretati, possano confermarci ciò che le immagini stanno raccontando. Senza le parole l’adulto si sente perduto; egli, contrariamente al bambino, ha bisogno di ancore di testo per non andare alla deriva nel grande mare delle figure, quello stesso mare in cui, ahimè, naufraga continuamente quando si tratta di schermi televisivi e messaggi pubblicitari.
Ma attenzione: molto spesso laddove crediamo di essere solo in balia delle immagini, stiamo in verità anche ascoltando una voce narrante o leggendo un testo scritto, che se pur breve – può essere formato da una sola parola – è fondamentale per orientare la comprensione di quanto stiamo vedendo.
Quest’ultimo punto è di estrema importanza perché quando si tratta di scegliere un libro per un bambino sotto i sei anni, le parole perdono quasi totalmente la loro centralità nonostante – e questo è il paradosso – l’adulto non possa farne a meno quando si tratta di comprendere la realtà, e nonostante i bambini siano immersi fin dai primi mesi in un mondo non solo di immagini, ma anche di suoni e parole.
Negli ultimi quindici anni il libro per eccellenza adatto ai bambini in età prescolare è diventato quello con le illustrazioni, come se la storia che il testo veicola finisse in secondo piano o non dovesse aderire a canoni altrettanto precisi di comprensibilità, bellezza ed equilibrio narrativo.
L’albo illustrato è diventato il prodotto editoriale perfetto per la nostra contemporaneità perché nel suo equilibrio di immagini, parole e segno grafico (non dimentichiamocelo) rassicura l’adulto con testi semplici e a volte scarni, portando – e questo è un vero peccato – a prestare poca importanza ai meccanismi narratologici che se ben orchestrati fanno di una storia una bella storia.
Per meccanismi narratologici intendo non solo l’efficacia del quid narrativo e il senso della storia, ma anche la qualità della scrittura, cioè l’uso di vocaboli appropriati e una costruzione sintattica eccellente.
Più ci allontaniamo dalla parola, più perdiamo coscienza del nostro riconoscerci non solo come esseri narranti, ma, per usare le parole di Daniel Pennac, di esseri mitologici, ovvero creature bisognose di storie, di miti e di metafore.
Solo ridando valore alla parola, sia scritta che narrata, potremmo rieducare il nostro orecchio a riconoscere la bellezza e le radici profonde dei nostri sentimenti. Si tratta a mio avviso non di ricominciare tutto da capo, ma di sfatare questa dipendenza dalle immagini anche quando si tratta di bambini piccoli o molto piccoli.
Non fraintendetemi: riconosco alle illustrazioni d’autore un grande valore sia narrativo che estetico, ma mi piacerebbe che anche alle parole fosse riconosciuta la stessa importanza. Ritengo che oggi educare l’orecchio sia fondamentale quanto educare l’occhio – anch’esso in grande difficoltà quando si tratta di uscire dalla stereotipia delle immagini “per bambini”; tuttavia, mentre negli ultimi anni per l’occhio ci si sta prodigando moltissimo, anche grazie al successo dell’albo illustrato, all’orecchio si presta pochissima attenzione.
Penso che educare l’orecchio in questi tempi di pericolose discriminazioni sia di fondamentale importanza: l’orecchio è molto meno giudicante dell’occhio, meno malleabile; l’orecchio, se ben allenato, ascolta e accoglie, e sa riconoscere la bellezza autentica di un cuore; l’orecchio conduce alla musica che è espressione profonda dell’anima, ma non dimentichiamo che la musica, insieme all’arte, è la cenerentola della scuola italiana.
Tre albi a confronto
Ora vorrei riportarvi la frase d’inizio di tre albi illustrati per cercare di dare una dimostrazione pratica di quello che intendo quando parlo di saper riconoscere la bellezza della parola.
L’ albo illustrato “Chi vuole un abbraccio” di Prezmyslaw Wechterowicz ed Emilia Dziubak, tradotto da Aneta Kobylanska ed edito dalla Sinnos inizia così:
E’ una bella giornata di primavera e il sole si sta ancora spazzolando i denti.
L’albo illustrato “Mentre tutti dormono” di Astrid Lindgren con le illustrazioni di Kitty Crowther, tradotto da Roberta Colonna Dahlman ed edito da Il gioco di leggere inizia così:
E’ notte. Tutti dormono nella vecchia fattoria in mezzo al bosco.
L’albo illustrato “Nel paese dei mostri selvaggi” di Maurice Sendak, tradotto da Antonio Porta ed edito da Babalibri inizia così:
Quella sera Max si mise il costume da lupo e ne combinò di tutti i colori.
Questi tre albi si aprono con una connotazione temporale: è una bella giornata di primavera, è notte, quella sera.
Ma il primo albo non si accontenta di segnalarci che è una bella giornata è che è primavera, ci dice pure che il sole si sta ancora spazzolando i denti. E io mi domando perché mai l’autrice sente questa esigenza di ampliare il suo testo con una frase che nulla avrà poi a che vedere con la storia raccontata nel libro?
Sarebbe stato molto più efficace dire: E’ una bella giornata di Primavera. Punto.
La concessione all’immagine del sole che si lava i denti toglie e sporca tutta l’efficacia alla parola, densa e profumata, Primavera.
Prendete ora il testo di Astrid Lindgren:
E’ notte. Tutti dormono nelle vecchia fattoria in mezzo al bosco.
Il punto dopo la frase E’ notte dilata il tempo della visione, ci costringe a fare una pausa, a prendere un respiro prima di concentrarci sulla frase successiva. Il silenzio di quel punto introduce il Tutti dormono e la sensazione di quiete data dall’immagine della casa in mezzo al bosco.
Immaginate se Astrid Lindgren avesse scritto:
E’ notte e la luna si sta ancora mettendo il pigiama. Tutti dormono nella vecchia fattoria in mezzo al bosco.
Avvertite la stonatura e la caduta di tensione? Senza il punto dopo è notte e con la luna che si mette il pigiama vi si apre davanti un quadro completamente diverso rispetto al bosco silente e alla casa immersa nel sonno.
Quel sole che si spazzola i denti nel testo di Prezmyslaw Wechterowicz è un ammiccamento inopportuno e fastidioso ad una precisa visione del mondo che molti adulti credono di riconoscere nello sguardo del bambino.
Certo, un autore come Altan ha fatto dell’animismo la chiave di volta della sua poetica, ma, sia che lo si condivida o meno, l’animismo rimane in Altan un’interpretazione sincera e coerente dello sguardo bambino. Se stessimo sfogliando un libro della Pimpa non solo il sole, ma anche il frigorifero, la sveglia e il letto si laverebbero i denti in una bella giornata di primavera. In Altan questo è linguaggio voluto e ricercato, corrispondente ad un’idea precisa difesa con forza in ogni dettaglio, e, a mio avviso, per un bambino la coerenza del linguaggio è molto importante.
In “Chi vuole un abbraccio?” non c’è invece nessuna ragione per cedere a quel sole che si spazzola i denti, se non quella di attrarre, con un linguaggio bambinesco, il lettore adulto che, non più avvezzo a riconoscere la bellezza e la coerenza di un testo, si lascia abbindolare come un allocco da una visione sdolcinata e stereotipata d’infanzia. In verità tutta la strategia del libro di Prezmyslaw Wechterowicz ed Emilia Dziubak è giocata su un linguaggio stucchevole atto a veicolare un messaggio altrettanto smielato.
Le parole sono il mezzo con cui esprimiamo il nostro pensiero, ma se le parole saranno misere, inadeguate e incoerenti, e il testo eccessivamente striminzito, sarà come esporre i bambini ad una musica monotona e dissonante. Un libro scritto male rende il pensiero e il linguaggio del bambino povero e triste.
Purtroppo l’adulto che per primo non legge o legge solo libri dozzinali, non sa più riconoscere un buon libro per bambini da uno pessimo, come, del resto, non sa più ascoltare la musica classica, il jazz e l’opera. E’ tutta una questione d’orecchio.
Ascoltate ora la forza dell’inizio dell’albo di Sendak:
Quella sera Max si mise il costume da lupo…
Quella sera apre l’albo con un impeto straordinario; mi vengono subito in mente le prime note della Quinta sinfonia di Beethoven… Tatatadan, tatatadan, tatadan dan dan… Il lettore si ritrova immediatamente catapultato dentro la storia, la vicenda si apre in medias res, ovvero a fatti già avviati.
Il Riccardo III di William Shakespeare inizia così:
Ora l’inverno del nostro scontento
si è mutato in gloriosa estate grazie a questo sole di York
Quanta forza c’è in quell’Ora! E’ un incipit meraviglioso, di una potenza inebriante… Ora l’inverno del nostro scontento… è davvero elettrizzante, rimane subito impresso nella mente e la lingua vorrebbe ripetere e ripetere ancora quelle parole… Ora l’inverno del nostro scontento, si è mutato in gloriosa estate grazie a questo sole di York.
Forse vi sembrerò pazza a paragonare l’incipit di Sendak alla Quinta di Beethoven o a una delle tragedie più belle di Shakeaspeare, ma una storia riuscita – sia anch’essa la storia di un albo – ha radici profonde; e i meccanismi narrativi quando sono efficaci richiamano alla memoria antiche magie e restano impressi in noi per lungo tempo, come una melodia immortale o una poesia perfetta.
La musica delle parole è potente ed è per questo che come libraia soffro grandemente quando vedo un libro scritto o tradotto male, o quando osservo con crescente preoccupazione, come i bambini e gli adulti si allontanino ogni giorno di più e con sempre maggior timore, dalla bellezza delle parole.
Un testo articolato e ben scritto getta le fondamenta su cui verrà poi costruito il pensiero. I bambini sono immersi fin da subito nelle parole, perché mai dovrebbero temerle? Tuttavia queste parole s’impoveriscono costantemente, ripetendosi all’infinito sempre uguali a se stesse come su un disco rotto. La matrigna di Biancaneve è cristallizzata dentro l’aggettivo “cattiva”, le principesse sono tutte “belle”, e i conigli e gli orsacchiotti dei libri per bambini sono “dolci” o “teneri”. Invece la matrigna di Biancaneve è “crudele” perché l’aggettivo “crudele” ha la radice di “crudo” e la regina vuole vedere il cuore pulsante della fanciulla dentro ad un cofanetto di cristallo; mentre la matrigna di Vassillissa è “perfida” perché trama nell’ombra per liberarsi della figlioccia, e il suono delle lettere rf richiama il suono della lingua insidiosa del serpente. Quanta meraviglia racchiudono le parole! E come rimarrete stupiti nel vedere i vostri bambini affascinati da esse!
Un trucco
Alcuni genitori mi dicono che non possono leggere un testo “difficile” ai loro bambini perché loro li interrompono spesso per chiedere il significato delle parole che non comprendono. Allora io suggerisco di stabilire delle regole prima di iniziare la lettura. Quando narro le fiabe in libreria o quando leggo la narrativa a mio figlio di cinque anni, chiedo ai bambini di tenere ben in mente le domande o le parole che non conoscono, e di pormi le loro domande a fiaba terminata; specifico inoltre che in questo modo potranno esser certi che solo le parole importanti resteranno nella loro memoria; le altre parole diventeranno musica, voce e bellezza.
Così alla fine di ogni fiaba mi vedo recapitare parole splendenti anche dai bambini più piccoli: fauci, terrore, rogo, esausto… Questo semplice accordo tra chi legge e chi ascolta vi permetterà di non interrompere continuamente la lettura e di aumentare la concentrazione dei bambini. Nei primi tentativi la curiosità verrà trattenuta a fatica, voi allora fate solo un cenno di silenzio, e tenete a mente per loro le parole o i concetti poco chiari e procedete senza indugio. Con il tempo l’abitudine a ricordare diventerà un magnifico gioco di memoria.
La magia delle riletture
C’è un altro vantaggio nel leggere ad un bambino un testo di narrativa prima dei sei anni: questo vantaggio, o meglio questa opportunità, io la chiamo “la magia delle riletture”.
Rileggere un libro ci fornisce la possibilità di avere un focus preciso su noi stessi, sul nostro percorso e sui nostri sentimenti.
Ricordo che a tredici anni, mio padre mi fece leggere Madame Bovary di Gustav Flaubert: a quel tempo non compresi le scelte di Madame Bovary e mi ribellai al suo destino detestando il romanzo di Flaubert per lungo tempo. Qualcosa però rimase vivo in me da quella lettura straordinaria, e a distanza di anni ho ripreso tra le mani quelle pagine che, evidentemente, mi avevano turbato (e il perturbante in letteratura è sempre un buon segnale). Riprendere la lettura del romanzo di Flaubert fu una rivelazione, non tanto perché riuscivo a comprendere più in profondità i sentimenti di Madame Bovary provando compassione per i suoi sogni infranti e per il suo destino, ma perché attraverso quella rilettura ho potuto rivedere me stessa, i miei tredici anni, quell’età piena di entusiasmo e incertezza, rivisitare le mie aspirazioni mentre immaginavo un’amore senza compromessi. Una tenerezza commovente mi ha attraversato rendendo quel romanzo ancora più splendente e significativo nella mia vita di lettrice.
Questo è capitato con Madame Bovary, ma potrei citarvi altri esempi; quello che mi preme e potervi dire che un libro “lungo” o “pieno di parole”, quel libro che ora abbandonate sullo scaffale prima di arrivare alla cassa perché il vostro bambino ha solo 5 anni e la libraia deve essere pazza ad avervelo consigliato, non solo affascinerà i vostri figli, ma resterà un’ancora nella loro memoria alla quale fare riferimento quando ci si vorrà immergere nel mare grande di chi siamo. Giulio, mio figlio, ha già letto molti libri di Roald Dahl: con il GGG si è divertito moltissimo, non credo ridesse per i meccanismi linguistici che il Gigante stravolge ogni volta che apre bocca, ma per la bellezza di certe parole (la parola cetrionzolo è di per sé esilarante), per riconoscere nella voce della mamma parole combinate tra loro in modo inconsueto (e questo la dice lunga su quanto i bambini siano recettivi rispetto alla struttura del linguaggio anche in età prescolare), e per la straordinaria efficacia della storia. Quando andrà alla scuola primaria e studierà le strutture grammaticali e rileggerà il GGG non solo metterà a fuoco cose che gli erano sfuggite, ma avrà a disposizione “un immaginario affettivo” dal quale partire per costruire nuovi scenari, per ridere pensando “guarda che cosa capivo quand’ero piccolo!”, per ricordare con tenerezza la lettura serale con mamma e papà.
Certo, bisogna partire dalla narrativa appropriata (anche se vi invitiamo a leggere l’articolo precedente a questo), da quegli autori talentuosi che come Roald Dahl sanno come conquistare un piccolo lettore.
I librai ci sono per questo, per consigliarvi e guidarvi.
Come libraia penso che allontanare un bambino in età prescolare dalle parole di un libro significhi non poter attraversare con lui la complessità di una storia, scarnificare il meraviglioso vocabolario della lingua italiana e perdere l’occasione di offrirgli un modo per costruire la propria identità in fieri e in retrospettiva poi.
4 pensieri su “Vizi e pregiudizi #2 | L’importanza delle parole”
Cara Alessia, che splendore questi articoli.
E che voglia di iniziare a leggere i libri di sole parole con mio figlio! La difficoltà purtroppo è trovare un librario che con onestà e competenza ti guidi verso questo sentiero o almeno ti faccia intravvedere l’inizio del sentiero.
Cara Alessia,
ho letto con passione sia questo articolo che il precedente. Ti ringrazio perché mi hai indicato una nuova prospettiva.
Recentemente ho iniziato a proporre a mio figlio Francesco, 4 anni e mezzo, storie più lunghe ed articolate in aggiunta agli albi illustrati. Ma mentre lo invito ad ascoltare e creare nella sua mente le immagini che la storia gli suggerisce, lui mi chiede continuamente di vedere il libro, alla ricerca di qualche figura a supporto di quanto sto leggendo.
Pensavo non fosse pronto a sostenere le letture senza immagini ma forse sono semplicemente io a non averlo mai abituato. O forse non ho scelto bene i libri.
Fino a poco tempo fa ho proposto esclusivamente albi illustrati, ritenendo le immagini di fondamentale importanza per arricchire il suo bagaglio e il suo immaginario. Solo recentemente mi sto dedicando per bene alla narrazione (oltre alla lettura) per abituare lui e la sorellina di tre anni alla bellezza delle parole e della storia narrata e vedo che ne sono entrambi affascinati.
Proverò, seguendo anche i tuoi consigli di lettura, ad educarlo all’ascolto. Senza forzarlo chiaramente, cercherò di insistere un po’ sulla lettura condivisa senza immagini.
Grazie!
Elena
Non mi trovo d’accordo con alcune tue dichiarazioni, non capisco perché proporre a un bambino che inizia a leggere dei libri di sole parole quando la maggior soddisfazione per un bambino è tenere il suo libretto in mano e riuscire a leggerlo tutto da solo. Sai che frustazione non riuscire ad arrivare a fine capitolo perchè le parole si confondono per la stanchezza. Sono per le tappe graduali, non credo sia giusto bruciare le tappe e cominciare a piccoli passi l’avventura di leggere libri è fondamentale. E poi perchè abbandonare le figure o le belle illustrazioni che arricchiscono una storia?
Buonasera Alessia. Ho letto volentieri, ma sempre un po’ velocemente l’ articolo…il tempo vola e le cose da fare sono sempre tante. I ricordi e i pensieri però sono affiorati…ho un libro acciaccato, semi disfatto che riposa da tempo, tanto tempo, nella libreria di casa. Fu il primo libro che comprai per mio figlio, ancor prima che nascesse, duecentotrentasei pagine. Iniziai a leggerglielo e a recitarne alcune parti a memoria quando era in culla; una volta in grado di stare seduto, con le mani batteva sulle pagine del libro, tentava di afferrarle, le alzava, ricadevano, le girava e pure gli capitò di tirarle fino a strapparne qualcuna: qua e là un po’ di nastro adesivo ancora oggi ne tiene uniti i pezzi. Il suo titolo era ed è “Lo scacciapensieri” “indovinelli, passerotti, filastrocche, canzoncine, giochi e novelline popolari” di Mario Giusti. E’ stato il suo primo libro. Non mi interessava che capisse quello che gli leggevo tenendolo in grembo, o seduto sul tavolo davanti al libro, era la musica delle parole, della voce , delle emozioni, ciò che desideravo arrivasse a lui. I libri che insieme abbiamo letto, anno, dopo anno, sono stati davvero tanti, desideravo creare per noi mondi desiderabili in cui infilarci, una ninna nanna ci preparava al viaggio notturno, uno scioglilingua ci stupiva, una filastrocca ci divertiva, un racconto triste ci impensieriva, un’avventura ci dava i brividi. Non c’era il libro per lui…c’era un libro per noi per narrare e, col tempo, narrarci. Non gli lessi mai un libro che non mi piacesse. Oggi la letteratura per l’infanzia è generosa di libri e necessariamente ci si pone il problema del libro da scegliere; in un tempo meno prodigo ci si affidava ai classici. Io ebbi il mio primo libro a cinque anni! Non l’ho mai dimenticato, me lo lesse mio fratello che di anni ne aveva nove: Pinocchio. Fu la prima storia d’amore tra me e un libro. Conservo ancora il nostro Pinocchio, ha una ventina di pagine in cui sotto tutte le righe corrono delle linee un po’ storte a biro…semplice ed efficace educazione, in proprio, dello sguardo, della bambina che voleva penetrare i misteri della lettura.
Io non credo che un ottimo libro sprigionerà il suo potenziale narrativo, specialmente in età pre scolare, se chi lo compra per regalarlo viene razionalmente convinto del suo valore da parte di una recensione critica sapiente. Un libro per svelarsi a un piccolo lettore esige qualcosa di più, deve essere donato con l’impronta delle emozioni di chi lo porge, con la disponibilità di qualcuno a condividere emozioni. Il libro non chiede solo rispetto, chiede di dialogare con i suoi lettori, ed ogni dialogo sarà unico e irripetibile. Un libro può raccontare la storia più coinvolgente, più bella, meglio illustrata, meglio scritta di questo mondo, o tutte le cose insieme, ma correrà il serio rischio di rimanere, per chi lo riceve, solo un mucchietto di carta, se porterà con sé solo il rispetto o la soddisfazione di chi lo regala, in quanto opera pregevole.
Tutto questo gran discorrere mi porta sempre alla solita domanda: cosa fa di un bambino un futuro lettore ed esploratore di libri? Conta di più il libro o la via che porta a un libro? Conta di più il valore assegnato dalla critica al libro, o “quell’altrove conosciuto e sconosciuto” in cui un giorno, per la prima volta, un piccolo lettore entra, preso al laccio dal libro? E quanto conta la nostalgia, l’assenza che ti lascia in eredità l’ultima pagina del libro che hai appena terminato di leggere?E quanta importanza hanno le narrazioni familiari slegate da qualsiasi libro, le esperienze concrete di vita di un bambino che non possono essere sostituite da nessun libro, ma che portano ai libri? Forse sarò un po’ presuntuosa, cosa che mi è solitamente abbastanza estranea, ma penso che per ogni bambino la strada che porta all’amore per la lettura sia invisibile ai più. A me come insegnante spetta solo il compito di gettare semi, con la speranza di cominciare a confezionare per lui e insieme ad altri, librai e bibliotecari, genitori, nonni, amici, uno dei grandi piaceri della vita.