Oggi come da bambina, quando mio padre mi raccontava i miti greci, mi capita di perdere, al cospetto del sacro, la capacità di attribuire alla realtà contorni precisi.
La fiabe e il mito suscitano in me un rispetto talmente profondo da provocare, a livello visivo, un distacco immediato con la dimensione del quotidiano. Non perché io ritenga che le fiabe e i miti non parlino del nostro tempo, anzi direi tutt’altro; ma perché i paesaggi che le parole evocano quando ascolto o leggo un racconto, dichiarano immediatamente la loro appartenenza ad un altrove, a quei mondi creati per imago che dalla realtà traggono solo le strutture più semplici e quindi più potenti: i boschi umidi e verdi, l’oceano profondo, le montagne innevate e impervie , le isole disseminate di ginestre e mirti. Di questi luoghi, ne percepisco perfino i profumi, ma i volti… i volti, quelli certamente non li riesco a vedere.
E non è solo una questione d’incapacità; la bellezza di Dee e Principesse, il volto severo dello Zar o del padre degli Dei, le figure selvatiche di Streghe e Ninfe, incutono in me un tale timore reverenziale che il prodigio dei loro volti è volutamente tenuto segreto dal custode stesso della mia immaginazione.
Non c’è viso di Dea che io riesca a scorgere; solo quando si tramutano in animali bellissimi posso per qualche istante fissare i loro occhi profondi.
Alcuni sostengono che sia difficile raccontare ad alta voce una fiaba di cui, tu per primo, non vedi i personaggi, ma su questo non sono affatto d’accordo: l’incanto può essere sostenuto da molteplici fattori, non necessariamente tutti di tipo visivo.
Il libro di cui sto per parlarvi penso avvalori questa mia teoria, ma lo fa preservando il mistero del sacro.
Il libro è edito da Topipittori e si intitola “Un chicco di melograno. Come nacquero le stagioni” con il testo raffinatissimo di Massimo Scotti e le illustrazioni evocative di Pia Valentinis.
La sfida è doppia: quando si parla di libri illustrati e non di racconti orali la forza del mito deve essere tramandata intatta sia nelle parole che nelle figure. Quando si parla di storie molto antiche, le parole, come i volti, devono saper rivelare una bellezza potente e nascosta.
Il suono delle parole diventa fondamentale, perché nella musicalità dei vocaboli sono nascosti incantesimi.
E’ come se le parole fossero lo specchio del volto della Dea: se racconterai usando termini sciatti e assemblati in malo modo, il velo diventerà una coltre di ferro impossibile da penetrare. Massimo Scotti ha invece saputo preservare l’incanto della parola e, non a caso, per compiere il sortilegio, ha recuperato la versione del mito di Demetra attribuita a Omero.
Più discendiamo la scala del tempo più muoveremo i nostri passi verso il cuore della verità, arrivando a intravedere la fonte dalla quale è sgorgato il mito primigenio. Così vale anche per le fiabe dove le versioni più prossime alla prima forma scritta preservano una potenza e una forza visiva che rischia poi di perdersi nei fronzoli e negli arricchimenti delle versioni successive.
Pia Valentinis ha saputo alludere al mito senza turbare la nostra immaginazione con visioni troppo nette. Le sue illustrazioni hanno un sapore antico, le linee sono pulite e sinuose come quelle di un anfora cretese e danzano sotto gli occhi del lettore come foglie appena mosse dal vento.
Il gioco delle ombre è evidente: Pia Valentinis usa il bianco e nero e solo in alcuni casi richiama la nostra attenzione su un particolare dello stesso colore della copertina, di un intenso “terra di Siena”. In tavole così pulite e dal carattere fortemente grafico viene da chiedersi: che importanza ha ciò che non si vede? Dal bianco della pagina cosa potrebbe apparire?
Il bianco e nero ci fa pensare ai caratteri tipografici, e sappiamo quanto sia importante nella stampa dare respiro alle parole, quanto contino, lì, gli spazi vuoti. Tuttavia il bianco e nero di Pia Valentinis è sfumato, come se il martelletto non fosse riuscito a imprimere il carattere con sufficiente forza. Il tratto è graffiato, quasi grattato dal fondo, come per far emergere le figure in primo piano nascoste sotto la patina del foglio. Ma se osserviamo bene, ed è questa la cosa che più di ogni altra ammiro nelle illustrazioni di questo libro, l‘assenza è reale perchè Demetra non compare mai.
Ci sono delle figurine, piccole donne e piccoli uomini, che affiorano in qualche quadro, e c’è Persefone, Kore, l’eterna fanciulla, regina dell’Ade, ma così mortale nella sua fragilità.
Nelle illustrazioni di Pia Valentinis contano le ombre, come nella tavola in cui il fuoco delinea la sagoma di Demetra che tremenda e possente si rivela alla regina Metanira madre del piccolo Demoofonte.
La Dea non ci appare mai, il suo volto è affidato unicamente al suono delle parole di Massimo Scotti. Il mistero è intatto. Ritroviamo nelle illustrazioni del “Chicco di melograno” la sacralità dei misteri Eleusini, dove il culto di Demetra era tenuto strettamente segreto dai sacerdoti del tempio, pena la morte.
Cosa ci mostra allora Pia Valentinis? Ci mostra gli animali sacri (gufi, cervi, serpenti) ed evoca nelle sue tavole i paesaggi del mito (prati, colline, vigneti) e lo fa dandoci solo degli indizi, ma così potenti da risvegliare in noi gli archetipi di cui Demetra e Persefone da sempre ci parlano.
Scrive Pamela Lydon Travers, dopo essere stata nello studio del poeta Yeats:
“Il segreto è dire meno di quello che serve. Non c’è bisogno di una foresta, una foglia può bastare.”
(The Junior Book of Authors, New York, 1951)
Il sacro contenuto nei miti e nelle fiabe appare nello stesso modo.