A questo articolo farà seguito il consiglio di lettura dedicato a Ah!Ernesto di Marguerite Duras edito da Rizzoli e illustrato da Katy Couprie. Il consiglio di lettura è già apparso nella newsletter di marzo 2018.
Mi ha molto colpita ciò che viene raccontato in una delle note contenute nel magnifico libro Ah!Ernesto di Marguerite Duras, pubblicato in Italia da Rizzoli nel 2018.
Prima di cimentarsi nella scrittura del suo primo (e unico) libro per bambini – siamo nel 1967 -, Marguerite Duras mise da subito in chiaro con l’editore Francoise Rue-Vidal come lei non si sentisse capace di scrivere per un pubblico eccessivamente giovane e che, se quella fosse stata la richiesta della case editrice, avrebbe certamente declinato l’invito.
Caro Signore,
ho ricevuto la sua lettera e i suoi libri.
Non dico subito di no. Ma di che bambini si tratta?
Non credo di poter essere interessante se sono molto piccoli.
Se invece sono tra i dieci e i dodici anni sì […]Parigi, 26 giugno 1967.
La persona che non si ritiene interessante è niente meno che Marguerite Duras, l’autrice che con lama affilata e chirurgica, ci racconta la sua infanzia in Indocina nello splendido romanzo L’amante inglese del 1967.
E non solo ne L’amante inglese Marguerite Duras ci ha lasciato tracce indelebili della propria infanzia, ma in numerosi altri romanzi; eppure invitata a scrivere una storia per bambini ci appare titubante e incerta; chiede inoltre di poter scrivere per bambini non troppo piccoli. Un dettaglio non irrilevante se pensiamo che oggi è proprio la fascia 0-6 anni a farla da padrone, con i suoi scaffali colorati su cui abbondano albi illustrati (e dove scarseggiano libri di sole parole) per i più piccini.
Non ho mai nascosto di essere turbata dalla grande produzione editoriale degli ultimi anni, ma leggendo la nota del libro della Duras, mi sono posta questa domanda:
Di cosa necessita un autore per scrivere una storia destinata ai bambini?
Dopo aver riflettuto a lungo sulla vicenda di Marguerite Duras, la prima risposta che mi sono data è che lo scrittore ha bisogno di un’incertezza, di una fragilità.
Una simile conclusione potrà suonare disarmante perché leggendo un buon libro la sensazione che avvertiamo è quella di sentirci al sicuro, in ottime mani. Quella scrittura tanto fluida, quell’idea lampante, quella storia così ben costruita e, se è un albo, quelle illustrazioni in cui nulla è di troppo e tutto concorre ad ampliare il nostro sguardo, ci comunicano sicurezza, fiducia e forza.
Allora perché parlare di fragilità?
Marguerite Duras pone davanti all’editore il dubbio di non saper scrivere per bambini. Trovo quel dubbio molto onesto e molto illuminante.
La fragilità di Merguerite Duras non risiede nella paura di non possedere il mezzo, la scrittura, ma nell’intenzione; dalle sue parole noi immaginiamo un approccio da equilibrista al delicato ecosistema dell’infanzia, un’età che più di altre sfugge allo stereotipo e da una visione univoca e consueta del mondo.
Marguerite Duras sapeva che
Resta sempre qualche cosa dell’infanzia, sempre…
Ma sembra sapere anche che l’infanzia è sfuggente, multiforme. Un conto è ricordarla, un altro scriverne e un altro ancora, il più difficile, è raccontarla ai bambini da un punto di vista che non renda la storia e l’autore finti o ingenui.
Gentile Signore,
sono molto preoccupata per il testo promesso – sugli squali –
non mi piace più.
Lo trovo ingenuo (è vero).
E al tempo stesso ho molta
“voglia” di fare qualcosa per i bambini e per lei.
Quindi, aspettiamo.
Ma com’è difficile!Con simpatia
Marguerite Duras(Lettera al suo editore Francoise Ruy-Vidal)
Il mistero dell’infanzia
La riflessione nata dalla lettura di queste lettere, nelle quali troviamo traccia di un atto creativo umile e misurato, mi da ancora più da pensare se osservo la vasta produzione odierna di libri per bambini e in particolare di albi illustrati, dove mi sembra si sfoderi una grande sicurezza nel sapere chi sia il bambino, quali siano i suoi bisogni e in ultima istanza quale sia il punto d’osservazione migliore per raccontare l’infanzia.
Marguerite Duras invece è talmente onesta nei confronti dell’infanzia – e non di meno con i suoi lettori – da mettere in bocca ad Ernesto una parola incomprensibile quando il maestro, esasperato, chiede al suo alunno come pensa di imparare le cose del mondo: Ernesto risponde En rachachant che Cinzia Bigliosi traduce con cianfrugliando.
Cianfrugliando non vuol dire nulla e vuole dire tutto, di certo la straordinaria ambiguità di questo verbo non può e non vuole descrivere un comportamento da prendere a modello, ma rende in modo efficacissimo il mistero che in fondo da sempre avvolge i processi di apprendimento dei bambini. Come imparano i bambini le cose del mondo? Marguerite Duras risponde cianfrugliando e così facendo si mette subito dalla loro parte, racconta a loro e a noi di conoscerli bene ma non non così tanto da poter dare una risposta più comprensibile di così. E non c’è ingenuità, né infantilismo nella sua scrittura, piuttosto cianfrugliando apre le porte a tutta una riflessione contemporanea sul sapere che la stessa autrice, in un’intervista pubblicata nel 1990 su Magazine Litteraire, esplicita in questo modo:
In un certo senso Ernesto dice: mi insegnano il sapere, ma non la conoscenza.
O meglio, mi insegnano delle cose che non mi interessa sapere. In altre parole: non mi lasciano imparare a non imparare, a fare da solo.
Oggi si editano storie che sembrano volerci dire tutto dell’infanzia, storie che si costituiscono dichiaratamente come modelli pronti a dire al bambino come comportarsi, come sentirsi, come fantasticare, cosa occorre sapere. Pur con tutte le buone intenzioni del mondo, molti dei libri sugli scaffali ci rimandano l’immagine del bambino che l’adulto desidera: bambini capaci di nominare le emozioni, di riconoscerle e di controllarle, bambini educati che accolgono il diverso e il nuovo, che rompono gli schemi del passato, che fanno amicizia, che superano le loro paure.
C’è ancora posto per imparare cianfrugliando?
Questo bambino così sicuro, così pronto a trovarsi un posto nel mondo ci parla di uno scrittore altrettanto sicuro di sé (non sto ovviamente parlando di un piano personale, ma compio considerazioni sul prodotto finale), che si approccia all’infanzia con disinvoltura, con in tasca molte certezze. E anche quando le sue storie raccontano di bambini insicuri o fragili si avverte un quadro troppo preciso e sfumature spesso preconfezionate. Insomma non c’è più il mistero.
Mi sento invece di poter affermare che il dubbio, l’incertezza, perfino la ritrosia siano le migliori doti dei grandi autori per bambini, dei parametri essenziali che descrivono un avvicinarsi cauto, discreto, e soprattutto rispettoso al mistero dell’infanzia. E riconoscendo questo mistero, autori come Marguerite Duras, riescono a restituirci storie cariche di inquietudine, storie vibranti che in ultima analisi portano al lettore, adulto o bambino che sia, l’unica cosa di cui un lettore abbia davvero bisogno, ovvero di storie vere.
Nel paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak (Adelphi 2018), Il palloncino rosso di Iela Mari (Babalibri 2007), Alessandro e il topo meccanico di Leo Lionni (Babalibri 2008), Il vaso vuoto di Demi (Rizzoli 2010), L’estate di Garman di Stian Hole (Donzelli 2011), Gorilla di Antony Browne (Orecchio acerbo 2017), Storie della notte di Kitty Krowter (Topipittori 2017), Leo e Lia di Laura Orvieto (Giunti 2011), Bullerby di Astrid Lindgren (Salani 2018), Favole al telefono di Gianni Rodari (Einaudi 2010), ci danno la sensazione di essere al cospetto di un’infanzia misteriosa.
C’è una delicatezza profonda in questi libri, uno sguardo lucido, preciso, ma mai supponente.
C’è uno squarcio in queste storie che si può sempre abitare, uno spazio vuoto sul pentagramma che apre la musica ad altre note, quelle peculiari ad ogni lettore. Non insegnano nulla questi libri e nemmeno dichiarano di sapere chi sia il bambino, semplicemente lo raccontano.
Per raccontarlo sappiamo per certo che lo hanno a lungo osservato, ma non con lo stupore della madre o con l’orgoglio del padre, lo hanno osservato come scrittori. Sendak, Lionni, Mari, Duran, Orvieto, Browne, Duras hanno guardato al bambino con sacralità. Il sacro porta con sé lo stupore e la meraviglia, ma anche il dubbio, l’incertezza, perfino una buona dose di maledizioni, ma soprattutto porta rispetto. Questi autori hanno mantenuto la giusta distanza tra loro e il bambini facendo, cosa a mio avviso importantissima, della propria esperienza nelle vaste terre dell’infanzia un metro non sempre affidabile.
Il fuoco segreto
Potremmo certamente dire che ogni storia nasce da un fuoco vivo, da qualcosa di intimamente legato alla nostra esperienza personale, un fuoco che con urgenza chiede di poter nascere al mondo; ma quella esperienza, per diventare letteratura, deve elevarsi, il fuoco deve nascondersi o spegnersi se è necessario, lasciare di sé solo il racconto, come scrive nel suo saggio Il fuoco e il racconto il filosofo Giorgio Angamben (Nottetempo 2014).
L’esperienza dello scrittore deve elevarsi ad universale per appartenere a tutti. Il che non vuole dire generalizzare (una trappola in cui molte storie finiscono per languire) restituendoci un’immagine di bambino fasulla; vuol dire attraversare il bosco della propria vita e quindi della propria scrittura, andando a ricercare gli archetipi.
Perché i racconti di Bullerby continuano a piacere ai nostri giovani lettori che più non giocano in cortile, che a mala pena conoscono i propri vicini di casa, che non sono più liberi di avventurarsi nel quartiere da soli? Perché Astrid Lindgren ha saputo cogliere dell’infanzia qualche cosa di archetipico, qualcosa che tutti riconosciamo come nostro pur avendolo vissuto in modo differente: la libertà, il desiderio di avventura, la fantasia, la tristezza, lo scoprirsi parte del mondo.
Dunque di cosa necessita un autore per scrivere una storia destinata ai bambini?
[symple_highlight color=”blue”]Di un dubbio, di un mistero, di un fuoco segreto e di una fiducia sincera.
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Fidarsi vuol dire lasciare uno spazio vuoto, non dire tutto, vuol dire guidare mettendo continuamente in dubbio la propria visione, rendersi disponibili all’errore, alla parola che non dice, alle parole inventate.
Tutte queste doti lasciano aperta la porta al perturbamento. Una parola quanto mai preziosa se vogliamo davvero raccontare l’infanzia, se vogliamo costruire storie degne di essere lette e tramandate a lungo. Su questa parola che probabilmente a molti lettori risulterà ostile e respingente, vorrei sostare a lungo, quindi vi rimando al prossimo articolo per continuare insieme a capire cosa significhi scrivere per i bambini.