La parola fiaba deriva dal latino fabulare che significa raccontare qualcosa con la voce.
La dimensione orale è parte integrante della fiaba perché è nel suono che si nasconde il loro insegnamento più profondo. Può sembrare strano, specialmente a noi occidentali, far coincidere con il suono delle parole e non con il loro significato, il senso ultimo della fiaba.
Tuttavia se ci soffermiamo per qualche minuto a riflettere, e ripensiamo alla nostra esperienza di narratori o ascoltatori di fiabe, possiamo certamente dire che la fiaba ci conquista solo quando è ben raccontata, affabulata.
Sfatiamo subito un mito: un attore non è detto sia un buon narratore.
Il buon narratore è una figura intensa, ma raccolta. Il suo spazio è quello piccolo intorno al fuoco e la sua ombra non deve allungarsi oltre la luce della fiamma. Non ci sono davanti a lui i fari della ribalta e la sua voce non deve arrivare fino all’ultima fila, ma molto più lontano, ovvero nel cuore di chi ascolta. Il narratore deve attingere l’immaginazione, oltre che dal proprio pozzo personale, anche dagli occhi di chi ha davanti, siano essi adulti o bambini. Non servono gesti possenti e nemmeno personaggi da abitare, non servono maschere e nemmeno costumi. E’ la voce che compie l’incanto perché la voce del narratore è in grado di creare.
E quella voce non è impostata e non sbatte le ali, come un uccellino, contro l’invisibile quarta parete del teatro: la voce del narratore vola libera, indossa le sue piume con estrema naturalezza, non c’è sforzo né ostentazione perché, quando raccontate una fiaba la vostra voce è tutto ciò che vi occorre.
Eppure essere dei buoni narratori non è così facile come sembra perché chi racconta una fiaba sa che deve possederla in ogni sua parte. Questo significa che il buon narratore conosce di una storia tutte le parole, e nello scrigno dentro cui, con cura, le raccoglie e le custodisce, sa che possono entrare solo le esatte parole ovvero quelle che risuonano, che portano il suono perfetto, e che unite le une alle altre danno vita a formule capaci di agganciarsi a qualcosa, in noi, di molto antico e misterioso.
Fabulare, raccontare qualcosa con la voce…
Paradossalmente per un narratore la memoria è successiva alle parole. L’attore conosce il testo, lo ha studiato, ne ha capito il significato perché in caso contrario, non sarebbe consapevole di quello che dice e sarebbe per lui difficile reggere la scena. Senza dubbio la memoria rende un attore più forte e credibile e gli permette di entrare nel personaggio con maggior vigore e originalità.
E se è vero che l’attore spesso interpreta un testo non suo e che questo vale anche per il narratore il quale attinge le sue storie da un patrimonio millenario, possiamo certamente dire che il narratore quelle esatte parole le trova in lungo cammino.
Quando il narratore racconta e riracconta una fiaba, le parole sbagliate cadono dalla sua memoria e dalla sua voce come foglie secche e lasciano il posto a nuovi germogli. Il narratore è un pollicino che segue i suoni nel bosco incantato: certi possono sembrare seducenti, ma poi conducono in deserti e in aride radure, altri non mandano eco, mentre altri ancora lo lasciano affamato sulla via del ritorno.
Il narratore deve fare un continuo lavoro di ricerca, trovare i suoni autentici che spesso sono nascosti in molte versioni della stessa fiaba. La missione è quella di risalire all’origine, alla stesura più antica di un racconto e non è detto, che a forza di narrare instancabilmente, il narratore non percepisca, nel profondo della sua voce, le parole che sta cercando. Questo genere di illuminazione fa sì che la memoria del narratore sia in fieri, in continuo movimento verso il centro della fiaba.
La memoria intelligente del narratore fissa le esatte parole e queste non sono altro che suoni perfetti e vibranti. Questi suoni entrano a far parte del bagaglio immaginativo e sapienziale di un bambino.
Tante volte abbiamo ribadito il concetto che le fiabe venivano narrate da adulti per altri adulti, ma i bambini non erano esclusi dal focolare: essi potevano sedere accanto ai vecchi e ascoltare ciò che veniva narrato. Di quelle storie i bambini attingevano per prima cosa i suoni i quali fornivano loro la chiave verso un mondo altro. Il bambino piccolo veniva affascinato prima di tutto dai suoni e solo successivamente dal significato.
Vorrei riportarvi, a questo punto, un brano tratto dal primo libro di Mary Poppins di Pamela Lydon Travers:
I gemelli Barbara e John, di nove mesi, stanno parlandosi dentro alle loro culle:
[John] “Lunedì scorso ho sentito Jane dire che le sarebbe piaciuto sapere quale lingua parla il vento.”
“Lo so,” disse Barbara. “è incredibile. E Michael insiste col dire che il fringuello fa Wee-Twee-ee-ee! Sembra non sapere che il fringuello non dice nulla del genere, ma parla esattamente la nostra stessa lingua.”
“Lo sapevano, un tempo” disse Mary Poppins piegando una delle camice da notte di Jane.
“Che cosa?” dissero John e Barbara insieme con una voce molto sorpresa.
“ Veramente? Vuoi dire che comprendevano il fringuello, il vento e…”
“E quello che dicono gli alberi e il linguaggio dei raggi del sole e delle stelle – certo che lo comprendevano! Una volta” disse Mary Poppins.
“Ma com’è che hanno dimenticato tutto questo?” disse John, aggrottando le sopracciglia e sforzandosi di capire.
“Perché sono cresciuti” spiegò Mary Poppins. “Barbara, infilati i calzini immediatamente, per favore”
“Questo è un motivo sciocco” disse John guardandola con sguardo poco convinto.
“Ma è quello vero, tuttavia.” disse Mary Poppins […]
“Bè, […] io so che io non dimenticherò, quando crescerò.”
“Nemmeno io!” disse Barbara.
“Oh, sì che lo farete” disse Mary Poppins fermamente.
“Uh!” ribadì il fringuello sdegnosamente. […] “Certo che dimenticherete, proprio come Jane e Michael” […] “Non è colpa vostra, naturalmente” aggiunse con più gentilezza “dimenticherete perché non potrete evitarlo. Non c’è mai stato un essere umano che ha ricordato dopo l’età di un anno, eccetto, naturalmente, Lei” e fece un cenno con la testa oltre le sue spalle, verso Mary Poppins […]
Appare dunque chiaro come i bambini piccoli siano in contatto immediato con l’intera natura e ne capiscano perfettamente il linguaggio, mentre gli adulti sono esclusi da questo senso di comunanza cosmica.
Esiste una memoria latente, per quanto rimossa o dimenticata, che si delinea come un oscuro senso di continuità tra noi e l’universo, una memoria in grado, forse, di riemergere se evocata da narratori-sciamani che, come Mary Poppins, ancora parlano la lingua della natura.
La lingua della natura è ben celata e tramandata da secoli nei suoni magici delle fiabe, le quali creano in noi le immagini del mondo dietro lo specchio; ed è probabile che sia per questo che le fiabe sono in grado di affascinarci ancora così tanto, specialmente se raccontate ad alta voce da narratori sapienti.
Ma come fa la voce a creare?
Risponderemo a questa domanda nella seconda parte di questo articolo dove vedremo come l’etimologia della parola fiaba e quella della parola bambino si intrecciano e si compenetrano l’una nell’altra.
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