Nota introduttiva
Nel porre a confronto i libri di questa contro bibliografia sulla maternità, mi sono domandata fino a che punto spingere l’analisi del testo. I libri a tema in genere sono molto semplici nei loro meccanismi narrativi, immediatamente fruibili e di facile interpretazione, e forse un’analisi eccessivamente approfondita potrebbe dare al lettore l’impressione che si voglia vedere tra le pagine qualcosa che non c’è o che non è mai stata nell’intenzione dell’autore trasmettere.
Il surplus analitico rischia non solo di allontanare il lettore, ma di ancorarlo maggiormente alla prima lettura, fiaccando d’un colpo il suo senso critico in favore di un approccio senza troppi pensieri.
Tuttavia è stato proprio meditando sull’immediata accessibilità dei libri a tema che ho maturato la mia idea su che tipo di indagine condurre in questa contro-bibliografia.
Più una cosa è di facile comprensione, più risulta rassicurante; per essere rassicurante un libro a tema deve fare leva su un sentire comune, diventare velocemente empatico con il lettore – specie quello adulto – fornire con semplicità la risposta che si stava cercando, suscitare buoni sentimenti, e magari essere ironico al punto giusto per sdrammatizzare una situazione “difficile”.
La buona letteratura però, come diceva Kafka, “è un pugno sul cranio”.
Se un libro non ci fa riflettere, ma culla le nostre insicurezze dandoci le risposte che ci aspettiamo, cosa lo leggiamo a fare?
Per tentare allora di guidare il lettore nella ricerca dello stereotipo all’interno dei libri a tema e per provare a smascherare i meccanismi che inducono i bambini e l’adulto a sentire come “famigliari” albi omologati al pensiero comune, ho spinto la mia analisi in profondità, oltre le parole, oltre le illustrazioni, oltre la trama, sperando di suscitare nel lettore qualche dubbio circa l’efficacia dei suddetti libri.
Aspetto un fratellino di Marianne Vilcoq, Babalibri
La letteratura per l’infanzia, specie quella a tema, vive di stereotipi forti e consolidati.
Nella copertina dell’albo di Marianne Vilcoq, una bambina emula la madre mettendosi un orsacchiotto sotto la maglietta.
Sono ormai più di vent’anni che frequento, prima come maestra e poi come libraia, molti bambini. Ho visto figli unici diventare fratelli e sorelle, li ho visti al mattino accompagnati dalla madre incinta, li ho visti giocare sereni a scuola, sfogliare libri, costruire case, cucinare, travestirsi…; ma di bambini che emulavano la gravidanza mettendosi un pupazzo sotto il vestito, no ne ho mai incontrati. Ora forse sarò stata sfortunata, e i miei lettori potranno confutare le mie osservazioni, ma ho l’impressione che già dalla copertina questo albo, molto famoso e molto amato, ponga al lettore una domanda: i bambini fanno realmente queste cose quando si trovano ad affrontare la nascita di un fratello o è lo sguardo adulto che ama dipingerli così? Uno sguardo forse nutrito da molta televisione, da molto cinema, da molte riviste?
(Anche l’utilizzo dell’ orsacchiotto è interesante. Bambini e orsetto formano ormai, nel libri per l’infanzia, un binomio indissolubile, ma è sempre più raro vedere bambini così affezionati ad un pupazzo. Gli oggetti, così detti transizionali, sono i più disparati, e per altro questa funzione consolatoria è influenzata da un comportamento culturale che oggi evita il più possibile un distacco tra madre-figlio).
Sicuramente l’immagine di copertina di Marianne Vilqoc è molto rassicurante e divertente: ci fa sorridere facendo scaturire nell’adulto un’emozione simile a quella che molti spot pubblicitari dedicati alla prima infanzia vorrebbero suscitare nel pubblico di genitori ( ma attenzione: il bambino non proverà le stesse sensazioni perché manca ancora di esperienza e di quel livello di astrazione necessario per condensare in quella bambina tutta una serie di sentimenti).
Un’illustrazione che dovrebbe diventare una semplificazione, atta ad introdurre in una situazione positiva il bambino, attraverso la letteratura – la cui funzione principale è quella di astrarre i temi senza impoverirli per produrre una finzione che diventi un modo per scoprire una verità su noi stessi e sul mondo – rischia di diventare solo un’immagine ad uso e consumo del lettore adulto.
E’ vero che il libro lo sceglie, in ultima battuta, l’adulto, ma in special modo un libro a tema dovrebbe per lo meno considerare il livello cognitivo e figurativo del suo principale lettore di riferimento, altrimenti si potrebbe supporre, ancora una volta, che questo genere di libri siano studiati a tavolino per i genitori.
Quando la semplificazione è eccessiva si scade nello stereotipo, e allora il rischio di lasciare fuori la complessità del reale è altissimo. La funzione del topos, se pensiamo per esempio ai topoi delle fiabe, non è quella di semplificare, ma di condensare.
Un altro elemento che non porta ad una lettura proficua da parte del bambino è il fatto che il fratellino nella pancia della mamma, reagisca alle domande e ai sentimenti della futura sorella.
Ormai la società ha acquisito molte informazioni sulla vita intrauterina, ma se proprio vogliamo dare un’immagine verosimile degli atteggiamenti del bambino in utero dovremmo piuttosto porre l’accento su le reazioni che il bambino sviluppa a partire dalle emozioni materne e non da quelle della sorella.
Sappiamo che l’udito del feto è già sviluppato a partire dal terzo mese di gravidanza e che quindi quasi certamente il bambino nella pancia saprà distinguere la voce dei suoi famigliari e riconoscerle una volta venuto al mondo, ma la semplificazione che porta il bambino a reagire agli umori della sorella mi sembra ancora una volta fuorviante. Il fratello quando nascerà non sarà in grado di reagire così empaticamente, probabilmente sorriderà in presenza della sorella, si dimostrerà felice della sua vicinanza, ma un’empatia emotiva come quella che il libro sembra suggerire, potrebbe essere ampiamente delusa.
La domanda che mi pongo è: è giusto che il genitore provi a sviluppare fin dalla gravidanza un rapporto tra i due fratelli? Mi spiego meglio per non essere fraintesa circa la motivazione per cui pongo questa domanda. Molti genitori alla seconda esperienza si preoccupano oggi ( e il fenomeno, ricordiamolo, è piuttosto recente) di creare per il secondogenito un ambiente accogliente e per il primogenito un passaggio graduale da figlio unico a quello di fratello o sorella; ma non sarebbe più opportuno lasciare che sia lo scorrere del quotidiano a far nascere domande e reazioni tra loro, a creare quel legame inquieto e profondo che lega ogni mistero, come quella della vita, ad un altro, come quello dell’empatia tra due esseri umani? E che siano la madre e il padre a dare risposte, anche incerte, al primo figlio rispetto ai propri dubbi, piuttosto che interferire con libri così generici e stereotipati, è di gran lunga più auspicabile.
Lasciamo che i bambini si sperimentino nel rapporto fraterno o sororale con i loro tempi, un rapporto che sarà a volte idilliaco a volte turbolento, doloroso e felice, chiaro o ambiguo come tutti i rapporti degni di nota. Perché mostrare un bambino in utero così perfettamente empatico quando nel quotidiano avrà da spartire battaglie e gelosie? Vorrei riportare l’attenzione sulla parola narrata, sul dialogo spontaneo tra un genitore e il figlio, senza richiedere l’ausilio di un libro per questioni che per loro natura sono imperscrutabili e cariche di fascino.
Quando sono nato
di di Isabel Minhòs Martins e Madalena Moltoso. Topipittori
In una pagina nera, la prima, è condensato lo spazio pieno di quel tutto non ancora identificato, di ciò che c’è solo in potenza; uno spazio nero che si sviluppa in profondità, che svela nel tutto pieno, il tutto indistinto. Accanto al colore, semplici frasi conducono il lettore a pensare al bambino dall’inizio, da quel poco prima che si trasforma nell’istante dopo.
“Quando sono nato, non avevo visto niente. […] Quando sono nato, era tutto nuovo. Tutto stava per cominciare.”
Semplici parole pronunciate da una voce fuori campo, quella di un bambino, che in prima persona racconta le cose del mondo percepite per la prima volta, in un gioco narrativo che oscilla tra tutto quello che non si conosceva
“quando sono nato non sapevo ancora cosa fosse il mare, e che c’erano le foreste…”
e quello che adesso si svela
“I miei occhi si sono incantati, quando hanno scoperto che ogni cosa ha un colore…”
Qui la finzione del neonato come narratore regge il vaglio della realtà perché le parole del bambino appena nato potrebbero essere le stesse del bambino lettore.
Si disegna così per tutto il libro una doppia semantica: la prima è quella in cui il testo e le illustrazioni descrivono la contemporaneità del fratellino neonato (dando senso al suo quotidiano ancora a-verbale), la seconda, più nascosta, assolve al bisogno del primogenito di ripensare alla sua venuta al mondo.
Il bambino narratore elenca tutto ciò che i suoi occhi, le sue mani, le sue orecchie, la sua bocca e il suo naso percepiscono e quindi imparano a conoscere, sottolineando lo stupore che accompagna ogni scoperta. Un bambino esploratore che si appresta alla crescita affamato di conoscenza perché intorno a lui c’è un mondo da capire e di cui fare parte; un bambino attivo, instancabile, che non si ferma mai, perché mentre conosce il mondo, conosce se stesso e affina le proprie capacità.
Quindi di chi stiamo parlando? Del bambino che deve nascere o di quello che legge insieme ai genitori questo libro?
Questa ambiguità è molto interessante e pone i fratelli sul medesimo piano, entrambi avvolti dal mistero della vita.
Da quel nero emergono, nelle pagine successive, le immagini delle esperienze che il bambino compie e, mentre il nero diventa sfondo, quasi a sottolineare quanto c’è di ancora non conosciuto, il bianco, insieme al giallo, al rosso e al verde, descrive la molteplicità di ciò che è stato scoperto.
La nascita qui è rappresentata come l’arrivo in un mondo già vissuto e abitato, da cose, ma anche da persone, da quel tessuto culturale e sociale che costituisce la storia di ciascuno, in cui sono le relazioni umane e generazionali (e non solo un fratello o una sorella) ad accompagnare il processo di crescita e di scoperta.
Il bambino viene illustrato immerso in un ambiente che racconta, non asettico, un luogo non costruito su misura per lui, ma per tutti quelli che vi abitano.
Lo sfondo bianco dell’albo di Marianne Vicoq concentra l’attenzione solo sulla diade/triade madre incinta-sorella, e sembra comunicarci che se le domande della bambina non venissero raccolte dalla mamma, cadrebbero nel vuoto. All’arrivo di un fratello non può essere la madre l’unica interlocutrice. Questo aspetto, ovvero la mancanza di una visione d’insieme, è molto presente in tutti i libri sulla maternità, il padre è spesso invisibile e l’ambiente in cui si svolge la storia o è costituito da un fondale neutro o mostra una casa poco credibile.
L’ambiente che Madalena Moltoso ci presenta è preparato per accogliere una nuova vita, ma non per questo dimentica la propria identità intessuta nel tempo con le storie di ciascuno, con gli oggetti che sono stati trovati, raccolti, costruiti, regalati. Un posto caldo dove ritrovare ricordi e umori semplicemente osservando pareti, mobili, fotografie, perché la conoscenza passa anche attraverso i luoghi e ciò che questi ci narrano nel silenzio della loro apparente immobilità.
L’attesa di una scoperta è sempre da salvaguardare nella sua complessità.
Nella tavola finale un grande telescopio direzionato verso il cielo stellato,si fa metafora dell’ignoto e dell’oltre: il senso del mistero è preservato.
Con questo libro che spesso si regala in occasione di una nascita e quasi mai per raccontare una gravidanza, il bambino trova un tessuto narrativo profondo e mai scontato, un racconto che non risponde ma pone nuove domande… e del resto chissà quante ne nasceranno quando il nuovo nato varcherà la soglia di casa.
2 pensieri su “Contro bibliografia ragionata sulla maternità #2 – I primi due libri a confronto”