“Freya vorrebbe aiutarla [la madre] a piegare la biancheria, ma il cesto è quasi vuoto, il suo contenuto è già stato trasformato in una città in miniatura sul tavolo. Ogni pila ha la sua destinazione: l’armadio della biancheria, il cassetto delle tovaglie, l’armadio a muro in corridoio, i cassetti insufficienti nella camera dei bambini. Non ha chiesto a sua madre se c’è un nuovo bambino in arrivo – è un argomento difficile e terribilmente umiliante -, ma Freya pensa a tutte quelle cose che un bambino si porta dietro, i pannolini, i bavaglini, le salviette, per asciugare l’incessante evacuazione. La città di panni è già abbastanza affollata, sul tavolo non c’è semplicemente spazio per un altro abitante.”
La città dei panni, il cesto del bucato sempre pieno, ma anche le camicie stese ad asciugare con quel modo particolare della madre di Freya di mettere le mollette, sono una perfetta metafora di una quotidianità cristallizzata in rituali senza più gioia.
E poi: la bicicletta nuova di Colt, la ferita al ginocchio di Avery, il canale di scolo, la piscina nel giardino dei Jenson, perfino la sterpaglia dei campi abbandonati, diventano straordinarie metafore attraverso cui leggere questo romanzo per ragazzi (e non solo) che io reputo tra i migliori del 2017.
L’universo di oggetti disseminato in Ragazzi d’oro rende questa storia straordinariamente delicata anche quando afferra lo stomaco.
La capacità di Sonya Hartnett di restituire al lettore gli stati d’animo dei personaggi a partire dal reperimento di cose e situazioni quotidiane, intesse la sua prosa, pulita e lineare, di metafore piccole eppure potentissime attraverso cui scoprire la psiche dei ragazzi e degli adulti protagonisti.
Gli oggetti, ma anche gli ambienti familiari, diventano così delle costellazioni che orientano ad una lettura introspettiva implicita.
Che Ragazzi d’oro sia un romanzo introspettivo, è chiaro fin dai primi due capitoli dove Colt e Freya ci vengono presentati attraverso la lente dei loro pensieri; ma le metafore del quotidiano portano il lettore a un approfondimento psichico implicito, delicato, lieve.
Lo sguardo di Sonya Hartnett è qui concentrato su un piccolo spazio, non solo interiore, ma anche fisico. Il perimetro entro cui si svolge l’azione è molto ristretto: un quartiere periferico, le case dei due protagonisti con i rispettivi piccoli giardini, il canale di scolo, le strade che collegano questi luoghi e che se si allontanano troppo sembrano dissolversi nel bianco di un non finito, come se oltre i confini precisi stabiliti dall’autrice la scenografia non fosse stata – volutamente – costruita (e poco importa se i personaggi le percorrono: essi spariscono con esse per poi riapparire appena varcano di nuovo i luoghi conosciuti).
Così, per dilatare il respiro del proprio romanzo, Sonya Hartnett vivifica gli oggetti, dona loro una drammaticità narrativa, attribuendo alla scrittura di Ragazzi d’oro una qualità sinestetica.
Il lettore si percepisce in grado di riconoscere odori, toccare corpi e cose, assaporare cibi e bevande… e si ritrova ad attraversare il romanzo non solo tramite il punto di vista dei protagonisti, ma anche tramite la propria memoria estetica. Per mezzo di quei dettagli che diventano metafore emozionali, i sentimenti e i luoghi si dilatano e le sensazioni dei personaggi si agganciano velocissimamente al vissuto di ciascuno risvegliando un’empatia profonda.
Un’altra qualità degna di nota nel romanzo di questa scrittrice australiana, insignita dell’ Astrid Lindgren Memorial Award nel 2008 – per intenderci il Nobel della Letteratura Ragazzi – è la sua grande competenza nel far coincidere il ritmo narrativo con l’evoluzione dei suoi personaggi.
La scrittura della Hartnett è come una spirale che si disegna contemporaneamente verso l’alto e verso il basso, costruendo una storia che prevede un doppio registro: verso il basso quando si tratta di scandagliare l’anima dei suoi personaggi e verso l’alto quando seguiamo il dipanarsi della trama. Dico spirale perché per tracciare entrambe le direzioni, Sonya Hartnett instilla nel lettore l’idea che l’evoluzione dei suoi protagonisti coesista inesorabilmente con un processo di ordine inverso, ovvero quello di una involuzione o regressione.
Freya e Colt “crescono” e “diminuiscono” incessantemente nel corso della storia così come cresce e diminuisce la velocità dello sviluppo narrativo.
Ma la spirale solo apparentemente disegna un percorso che in alcuni punti pare coincidere con quello già tracciato: in verità la sua forma è un disegno capace di comunicare una forte tensione e spinta a procedere, che ci ipnotizza e cattura anche quando il suo ritmo intrinseco sembra diminuito.
Trasportati dalla sua scrittura essenziale e puntuale, il lettore si ritrova all’ultima pagina scoprendo che
la spirale narrativa è senza fine e non si chiude come un cerchio – figura geometrica per eccellenza del romanzo di formazione e della fiaba – ma continua a lievitare oltre l’ultima parola, facendoci immaginare la storia oltre la storia, lasciandoci sospesi nel qui e ora dei personaggi che probabilmente continueranno a vivere in un universo parallelo.
Questa scrittura peculiare permette anche all’autrice di inserire, nei momenti che io chiamo di “involuzione”,
i personaggi secondari, i quali risultano, per questo, non solo estremamente efficaci, ma potenti e interessanti alla stregua dei personaggi principali.
E in un romanzo corale come Ragazzi d’oro, il fatto che Declan, Syd, Bastian, Avery, Garrick, ovvero gli altri bambini della storia, non siano solo coprotagonisti appena abbozzati (il titolo del romanzo è già di per sé significativo), ma risultino veri e profondi tanto quanto Freya e Colt, conferisce al romanzo un largo respiro e una rara autenticità narrativa.
Eppure non possiamo dire che Ragazzi d’oro non sia sotto molti punti di vista un romanzo di formazione, ma è un romanzo di formazione che si ancora saldamente alla contemporaneità, e che quindi fornisce al lettore adolescente un percorso iniziatico vivo, imprevedibile, contaminato dai nuovi terrori che riguardano l’infanzia e l’adolescenza, un percorso che considera il contesto culturale, sociale ed economico come l’orizzonte di senso attraverso il quale reificare il romanzo di formazione moderno.
Nel romanzo della Harnett siamo in Australia, nella periferia di una grande città, dove la povertà morde e la differenza tra famiglie indigenti e benestanti si consuma in una stanza affollata di bambini o di giocattoli. In Ragazzi d’oro non c’è più l’eroe che si abbatte e si rialza procedendo comunque su una linea retta, ma un ragazzo di nome Colt, primogenito di una famiglia agiata, che solo quando sarà a terra, sporco e insanguinato per le percosse subite dal coetaneo Garrick, capirà che quello è l’apice della sua formazione e contemporaneamente un nuovo punto di partenza. Quello stare nella polvere con il naso rotto e lo stomaco sottosopra, diventa per lui un momento catartico, lo stato a cui segretamente aveva ambito, il punto più basso da cui vedersi come in uno specchio per l’unica possibile rinascita.
E’ forte il romanzo di Sonya Hartnett, ma non pensate ad una scrittura priva di speranza o di luce, anzi; non è solo il movimento della trama a rendere interessanti i romanzi di questa autrice, ma il costante equilibrio tra i vuoti e tra i pieni, tra il detto e il non detto. A una scena particolarmente forte Sonya Hartnett fa corrispondere, senza condiscendenza alcuna, un universo di parole calde, luminose, inserite a loro volta nella cornice di un silenzio più ampio come quello di un quadro appeso alla parete o di un insetto che sale su uno stelo d’erba. Per ogni evento negativo, per ogni pensiero pesante, si crea nel cuore del lettore uno spazio pieno di speranza, compassione e amore.
Se può interessare, di questa autrice abbiamo già recensito “L’asinello d’argento”.