Ho pensato a lungo come potervi trasmettere l’emozione e l’empatia che provo quando leggo una poesia ad un bambino e ogni sentiero mi sembrava retorico. Infine è stato Akbar, un ragazzo di 12 anni, a porgermi le parole e lo ha fatto in modo così leggero che mi è parso mi stesse offrendo una chiave dorata.
Il velo del mistero poetico può essere alzato solo per qualche secondo, come il vento muove le foglie e fa cadere un raggio di sole sulla trama di una ragnatela. E’ un attimo, un breve secondo in cui ci sembra di scorgere l’invisibile. La poesia è così: rivela il mondo sotto la superficie e i fili che uniscono le cose l’une alle altre; non la si può trattenere a lungo, ma ciò che lascia dentro di noi ha il chiarore della rivelazione.
La poesia per un bambino è ovunque, la trova senza riconoscerla nei piccoli incanti di ogni giorno, nella luce che illumina la stanza, nella felicità di un pomeriggio all’aria aperta. La poesia è una bambina, che usa le sue stesse parole e gioca tenendo lo stesso ritmo, che comprende i lunghi silenzi, che corre senza sosta per poi fermarsi sull’orlo del precipizio con il cuore in gola, che tra l’ombra e la luce trova lo spazio in cui riposarsi.
E’ di questa familiarità che vorrei raccontarvi perché una volta incontrata, la poesia resterà nella vostra vita ed in quella dei vostri bambini.
Il parco vicino al centro non è certamente il più bello, ma in primavera i platani, gli ippocastani e i tigli ricamano un’ombra verde che ha la delicatezza delle foglie nuove. Già i primi di giugno, il caldo e lo smog del traffico cittadino, rendono quell’ombra giallastra e malata, ma a fine marzo l’aria si colora di sfumature fresche ed è piacevole sostare sotto quei giganti gentili.
Il parco è molto frequentato perché ha una zona in cemento per pattinare, le reti elastiche, la giostra e una vasta area con scivoli e altalene.
L’impressione generale tuttavia è di avanzato degrado: la pista di pattinaggio ha grosse crepe e il cemento è gonfio e sollevato, la giostra non ha nulla a che vedere con la poesia dei vecchi caroselli e lascia per tutto il giorno la radio accesa sulla stessa frequenza, i giochi per bambini sono sporchi, imbrattati di scritte oscene e, in generale, brutti.
Ai bambini non importa, a loro interessa cogliere tra il chiassoso brusio una voce amica da rincorrere. Mio figlio si arrampica su quelle strutture sciatte senza far caso ai colori sbiaditi, ai graffiti, facendo dell’azione il cuore pulsante dei suoi giochi.
Un ragazzo, maglia a righe e felpa nera, se ne sta immobile tra lo scivolo e l’altalena, con un braccio teso verso l’alto come fosse un trespolo. Non batte ciglio. Gli occhi neri sono resi più grandi dalle lenti spesse degli occhiali. La sua intensità mi ipnotizza. Mi allontano di qualche passo per poterlo osservare senza pudore. Lentamente, con un movimento quasi impercettibile, alza la testa per orientare lo sguardo tra le chiome degli alberi.
Istintivamente seguo quella traccia invisibile e mi ritrovo a fissare rami e foglie senza sapere cosa cercare.
Giulio mi sfreccia di fianco inseguendo una compagna di giochi, poi rapido torna indietro e mi chiede di soffiargli il naso. Vengo distratta per qualche secondo e quando cerco il ragazzo tra la folla non lo vedo più.
Poi improvvisamente, da dietro il tronco di una grande platano, vedo spuntare il braccio teso del ragazzo mentre lui avanza con estrema cura fissando una grande farfalla ferma sull’indice della sua mano.
Ecco cosa aspettava!
La farfalla ha riconosciuto il suo incantatore. La creaturina fragile, nera e rossa, scuote le antennine con un tremolio al tempo stesso pudico e tranquillo, aprendo e richiudendo le ali senza nessuna intenzione di spiccare il volo.
Quattro bambine ciarliere e irriverenti si accorgono della meraviglia e subito accorrono saltellando intorno alla mano del ragazzo.
E’ un attimo: la vibrazione aritmica di quelle ninfe sgraziate e dispettose rompe l’incanto della gentilezza e la farfalla vola via.
Il ragazzo non dice niente, con infinita dolcezza guarda la farfalla volare e senza concedere parola e sguardi a quelle bambine, resta immobile con il braccio teso. Aspetta.
Nell’istante preciso in cui la farfalla si è involata è successa una cosa straordinaria: il ragazzo non ha tentato di afferrarla e nemmeno l’ha congedata con uno sguardo di rammarico o delusione; nessun nervo o muscolo è stato attraversato dal fremito del possesso. La farfalla è volata via perché è quello che doveva fare.
Le bambine invece l’hanno immediatamente rincorsa cercando di afferrarla per ingabbiarla nell’incavo umido delle proprie mani, ma non ci sono riuscite.
Una volta che l’attrazione è fuggita il gruppetto si è allontanato.
Il ragazzo però è rimasto fermo, lo sguardo alle chiome, il pensiero pulito.
La magia è durata a lungo, nell’ora seguente altre farfalle sono arrivate, giocando tra loro, rincorrendosi e posandosi più volte sulla testa, le spalle o sul braccio del ragazzo.
Le bambine anche sono tornate e hanno cominciato a prendere in giro il ragazzo delle farfalle: gli chiedevano il suo nome e poiché lui non gli rispondeva, restando immobile e sereno nella sua meraviglia, gli saltellavano intorno chiamandolo “Cotoletta”.
Io sono rimasta di fronte a lui cercando di stabilire un dialogo, in primo luogo con le farfalle. Questo mi ha permesso di tessere un filo, di condividere la forza di quel tempo sospeso. Ci siamo scambiati molti sguardi e quando la farfalla si è posata sulla mia mano ci siamo sentiti così vicini da poterci incontrare su un ponte fatto di polvere.
Quando le bambine si sono allontanate gli ho chiesto come si chiamasse e lui ha risposto Akbar, me lo ha detto facendo una lunga pausa come se fosse un segreto.
In quel momento il suo nome ha fatto eco nella voce del nonno che lo invitava a tornare a casa.
Un ultimo sguardo alle chiome degli alberi, un ultimo sbatter d’ali in torno al braccio. “Ciao”, mi ha detto, e io sono stata colta da una tenerezza così profonda da farmi salire le lacrime.
Ciao Akbar, ammaliatore di farfalle.
Che la delicatezza di queste poesie possa ammaliare anche voi. Buona lettura!
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