Il riferimento alle belle bambine ribelli (…e addormentate – un associazione che non smette di divertirmi) non può a mio avviso essere taciuto, nemmeno in questo caso in cui ci troviamo davanti ad un romanzo di altissima caratura narrativa. Dal successo editoriale di Francesca Cavallo ed Elena Favilli sono derivati moltissimi libri/manuali dedicati a bambine e bambini in cui l’adulto ripone non tanto il seme di una auspicabile ribellione (a cosa non è del tutto chiaro), ma l’ambizione che i propri figli abbiano una vita memorabile (hai letto cosa ha fatto questa donna straordinaria? Non vuoi essere straordinaria -e ribelle – anche tu?). Irmgard Keun invece è una donna non solo rimasta a lungo dimenticata, ma con alle spalle una vita difficile caratterizzata da un certo nomadismo e da una vecchiaia percorsa da soventi ricoveri psichiatrici e da problemi di alcolismo. Insomma qualcuno potrebbe dire non proprio un modello da seguire, e temo che le due autrici di Bambine ribelli non abbiamo preso in considerazione la sua candidatura per quella che si paventa essere la terza edizione del loro libro (Virginia Woolf è entrata nel primo volume solo perché la sua patologia psichiatrica è stata declassata a depressione, un male che, ahinoi, non si finisce mai di sottovalutare, ma che proprio per questo diventa socialmente accettabile).
Trovo dunque sia molto interessante che l’Orma Editore proponga proprio adesso questo splendido romanzo: certamente non si può negare che ci sia il desiderio di cavalcare l’onda lunga di un’attenzione mediatica che sta letteralmente cannibalizzando gli stereotipi legati all’identità sessuale, ma si legge anche la volontà di presentare una storia finalmente degna di nota che rompe i canoni e straripa oltre il perbenismo, il sentimentalismo, l’idealizzazione di un’infanzia sempre più adulta e addomesticata (il che è paradossale se si pensa a cosa si porti dietro il termine ribellione).
E’ confortante pensare che la letteratura si liberi da un’idea virtuosa e preconfezionata di ribellione e lo faccia attraverso un libro come questo che ci attrae e ci conquista proprio in virtù del suo non essere né virtuoso né preconfezionato. E la cosa altrettanto incoraggiante è pensare che non si debba sempre legare un’infanzia sensibile e intelligente ad una vita di successo, specialmente oggi dove gli autori sembrano più importanti dei loro libri. Se fossi una scrittrice non vorrei rappresentare un modello di virtù per nessuno, ma vorrei scomparire dietro alla forza delle mie parole. E Irmgard Keun è sparita in tutti i sensi: è stata dimenticata, ignorata dalla critica, relegata a compagna (dal 1936 al 1938) di Joseph Roth (come se questa cosa potesse renderla più interessante) per poi riapparire oggi, in spirito e pensiero, in un romanzo davvero degno di nota. Una ex bambina ribelle che diventa l’antitesi del successo. Ma questo rende ancora più vivo questo romanzo, scevro di ogni accondiscendenza e vitale perché ci restituisce l’imperfezione di un’età della vita che deve imparare a smussare continuamente gli angoli per aderire ad uno stampo predefinito. E gli spigoli sono necessari alla scrittura (l’unica buona) che desidera sporcarsi di ombre, di anfratti bui, di zone non subito definite dalla luce. Che ne sarebbe stato di Anna Karenina, di Antigone, di Calpurnia, di Sally Lockhart, di Katitzi, di Miss Charity…senza quegli gli spazi imperfetti?
La bambina della Keun è pestifera e visionaria; come Pippi Calzelunghe rappresenta la radice profonda che germoglia nel cuore di tutti i bambini, una radice che spesso desideriamo potare affinché dia frutti commestibili. Eppure nemmeno l’adulto più saggio può – fortunatamente – impedire a nuovi polloni di portare alla luce l’essenza dell’albero, la sua indomita selvatichezza, il suo prolifico desiderio di vita. Una bambina da non frequentare ci esorta a sostenere la meravigliosa biodiversità dell’esistenza e quindi a costruire per noi e per le nuove generazioni librerie varie, sfaccettate, insolenti che rigettano manuali a favore delle storie.