«Cominciò a nevicare e ogni fiocco di neve che cadeva su di lei era come se ne gettassero a noi una cassetta piena, perché noi siamo grandi e lei era alta solo un pollice. Allora si avvolse in una foglia secca, ma non la poteva scaldare, tremava di freddo». Pollicina
Le fiabe di Hans Christian Andersen costituiscono un corpus narrativo che non ha uguali per forza e ampiezza di diffusione nell’ambito delle culture occidentali. Composte e pubblicate fra il 1835 e il 1874, esse scaturiscono in gran parte dalla fantasia originale dell’autore e solo in minima parte dalla materia popolare cui pure, almeno inizialmente, egli dichiarò di ispirarsi. Il fatto è che Andersen non si limita a ripercorrere e reinterpretare il filo della grande tradizione favolistica europea, inaugurata da Basile, fissata da Perrault e ulteriormente strutturata da Hoffmann. Dotato di un’inquieta tensione romantica e di un’autentica consapevolezza borghese, Andersen cambia radicalmente la prospettiva della fiaba. Prima di lui maghi, streghe, gnomi, draghi, fate e orchi erano figure dotate di poteri speciali, dalla sapienza impenetrabile, misteriosa, ignota al lettore. Andersen, al contrario, opera una sorta di umanizzazione di animali e cose e spesso s’immerge egli stesso nelle creature di sua invenzione, diventando di volta in volta un abete, un salvadanaio, una lumaca, una teiera. È qui il segreto del suo planetario successo: inventare figure irreali, per poi subito immergerle nel mondo reale, nella quotidianità delle passioni e delle pulsioni. «Le fiabe mi stavano in mente come un seme – ha detto di se stesso alla fine della sua carriera di scrittore –, ci voleva soltanto un soffio di vento, un raggio di sole, una goccia d’erba amara, ed esse sbocciavano». Dopo il primo successo del 2001, rinnovato nel 2005 in occasione del bicentenario della nascita di Andersen, l’edizione Donzelli torna oggi a ravvivare quel «soffio di vento» e quel «raggio di sole» attraverso il talento di uno dei massimi illustratori contemporanei, Fabian Negrin.