Ginny ha un piccolo regno.
Ginny è una ragazza di sedici anni e il suo impero si estende dalle dune davanti alla sua casa sulla costa del Galles alla spiaggia che abbraccia l’estuario sabbioso del fiume.
La pelle di Ginny è scura, ereditata da una madre haitiana, morta in circostanze misteriose, che le ha trasmesso il Gin, o demone, dell’arte. Ginny disegna meravigliosamente e il padre, con il quale vive fin dall’infanzia, la incoraggia con ammirazione. Tra loro c’è un affetto tenero e profondo; la pelle bianca di lui pare scomparire nei ricordi di abbracci ancora possibili o nella luce del tramonto in cui le chiacchiere si mescolano alla musica classica che arriva dal registratore oltre la finestra aperta.
Cosa farà Ginny del suo talento e della sua vita e a quale Demone dell’antica religione di Haity darà più spazio nel suo cuore fragile eppure temerario, il lettore lo scoprirà pagina dopo pagina di questo romanzo che lascia nei ricordi la luce delle spiagge del nord, sfumata e rarefatta dal vapore delle onde.
Il racconto di Pulmann è un susseguirsi di colori, e nasconde una riflessione sull’opera d’arte, capace di suggerire o ingabbiare la vita, e una visione sul mondo interiore di chi , per la prima volta, si trova a varcare il confine di un piccolo regno nel quale si sente al sicuro, per scoprire aldilà di quella frontiera, esistenze intrecciate le une alle altre.
La violenza, la malattia, la solitudine, la diversità si rivelano a Ginny in tutta la loro ambiguità, come in uno dei suoi disegni a chiaro scuro: la tenerezza, l’amore, la dolcezza si mescolano al dramma del quotidiano, per dare forma alle cose e ai volti. In seguito alle sue nuove esperienze e amicizie, Ginny scoprirà che c’è in ogni dipinto che la colpisce, un colore responsabile della forza e dell’equilibrio di tutto il quadro, una chiave di volta che solo chi ha saputo guardare alla vita con coraggio, può usare con sapienza, sancendo, consapevolmente o meno, un’opera qualsiasi da un’opera d’arte.
Philip Pullman sa, alla stregua di un pittore talentuoso, usare le parole giuste per tenere il lettore sempre sospeso, guidarlo alla ricerca di un possibile equilibrio della storia, tenerlo avvinto ai misteri della narrazione fino alla rivelazione finale, quella in cui l’adulto, la ragazza e il lettore si troveranno fragili allo stesso modo.
Ed è forse la fragilità la parola chiave di questo romanzo delicato e avvincente, stretto nei confini di un regno pronto a sgretolarsi mentre si rivela la nostra unica isola di salvezza, ancorato com’è all’infanzia o a ciò che possiamo definire davvero nostro, l’unica traccia sicura e riconoscibile nel susseguirsi caotico degli eventi e delle storie.
Il ponte spezzato appare dunque come una metafora incompiuta, un possibile futuro che solo noi possiamo costruire o ricostruire.