Questa riflessione nasce dalla lettura IL BAMBINO DEI BACI di Ulf Stark edito da Iperborea nella primavera del 2018, e prosegue idealmente l’articolo “Quale infanzia?”.
In molti si domandano come mai la letteratura nordica sappia tradurre così bene l’infanzia.
Ma quale infanzia?
È interessante rispondere a questa domanda perché credo che ciò che il Nord Europa traduce nei suoi libri sia per il lettore italiano adulto un’infanzia ideale.
Sono molto mutati i modelli d’infanzia negli ultimi vent’anni specialmente se pensiamo alla fascia dei bambini più piccoli. Una delle caratteristiche di questa “nuova infanzia” che emerge con costanza nelle tante narrazioni sui social, è il rapporto strettissimo che si vorrebbe che il bambino stringesse con l’ambiente naturale (un aspetto questo che appare con sempre maggiore vigore anche nei contesti scolastici). Da qui, ovvero dalla relazione tra bambino e natura, derivano gli ideali a cui molti genitori oggi fanno riferimento: la spensieratezza, la selvatichezza e l’intraprendenza.
Ulf Stark – come molti altri scrittori dell’area nordeuropea – sembra dare voce proprio a quell’infanzia selvatica e spensierata a cui i genitori ambiscono. Eppure io credo che se i libri pubblicati da Iperborea risultano per il pubblico italiano tanto speciali – e a livello letterario lo sono davvero – è perché a quell’infanzia ideale non si riferiscano affatto.
Vi sembra straniante questa affermazione?
Immagino di sì perché ciò che attrae il lettore verso le storie di Greta, Katitzi, Johanna e Ulf è esattamente la corrispondenza precisa a quell’infanzia di cui si parlava prima (selvatica, spensierata, intraprendente) e alla quale le storie di Astrid Lindgren, Katherina Taikon, Ulf Stark ecc… danno voce in modo sublime.
Eppure la verità è che il segreto di tutta le letteratura nordica sta proprio nello scrivere senza pensare affatto all’infanzia.
Ma come? I migliori scrittori per bambini non sono proprio quelli che mantengono vivido un ricordo d’infanzia? Quelli che ancora sanno sentire, immaginare e figurarsi bambini? Sì certamente, ma preservarsi bambini non significa pensare all’infanzia.
L’infanzia è in qualche misura l’astrazione dell’essere bambini, è la visione a posteriori di una particolare età della vita, una parola che usiamo solo una volta diventati adulti. Nella nostra contemporaneità italiana sembra che l’immagine d’infanzia sia oggi più importante dell’essere bambini nel qui e nell’adesso.
La scrittura fresca e disinvolta del racconto di Ulf Stark ci fa spalancare gli occhi e ci commuove. Ci fa dire “Ecco com’è essere bambini, ecco lo sguardo autentico del fanciullo!”.
Ma è così davvero per i nostri bambini? Forse ci piace immaginarli in questo modo, alla stregua dei bambini dei libri, consolarci nell’anelito di costruire per loro, almeno attraverso le storie, quel sogno che chiamiamo infanzia e che spesso poi si riduce a giornate senza pause tra un’attiva sportiva e l’altra, ai compiti scolastici e ad una scappatina al parco pubblico quando abbiamo tempo.
E’ bello leggere di Armata Rossa, la bambina tutta lentiggini che si allena con Ulf nell’arte del bacio; è entusiasmante la corsa nei sacchi o leggere delle baruffe serali di due fratelli che condividono la stessa camera; andare al supermercato da soli e seguire i ragazzi più grandi alla spiaggia dove le donne fanno il bagno nude (l’esilarante episodio iniziale che fa schernire gli adulti, ma che dà il la alla sfida dei baci). Eppure nemmeno il genitore di oggi ha alle spalle un simile vissuto.
Esiste per noi un corrispettivo di quel bambino nordico?
Sì esiste e forse lo abbiamo dimenticato, o peggio lo abbiamo sacrificato in nome di un’infanzia altra, lontana, ideale.
Lo ritroviamo nel bambino di città o di paese, quello che giocava in cortile con gli altri bambini (scambiandosi figurine, rincorrendosi a strega impalata, sfidandosi a palla-muro o ai quattro cantoni, che preparava zuppe di fango nei tegamini); nel bambino dei piccoli paesi che giocava a palla lungo la strada o che saltava l’elastico davanti alla porta di casa. Certo c’erano anche i bambini di campagna che saltavano i fossi, che andavano a caccia di rane, che giocavano tra gli animali da cortile, ma questa forse è un’infanzia un po’ più lontana. Il piccolo Ulf del bambino dei baci, qui sarebbe un “guaglione” o un “cinno”, come si dice in Emilia.
Se ci guardassimo intorno senza ambire all’infanzia nordica, senza pensare all’infanzia e basta, ci potremmo domandare finalmente: “che ne è stato dei cinni”?
Cosa facevamo da bambini che varrebbe davvero la pena ricordare e che, in qualche misura, non ha nulla da invidiare all’infanzia del Nord Europa? Quell’essere bambini è ancora a portata di mano e non ha bisogno di ambire a boschi e pozzanghere.
La geografia dei nostri quartieri non è mutata o, se lo è, è mutata in meglio. A partire dai cortili dei condomini, dai giochi di strada, dal parchetto spelacchiato tra i palazzi di un quartiere di periferia potremmo davvero commuoverci ancora anche qui, scoprendo così il vero segreto nascosto nella penna degli scrittori del Nord Europa: il raccontare autentico di bambini reali.
Nessuna infanzia ideale nei loro libri, solo il semplice scorrere dei giorni. Perfino in Pippi Calzelunghe, nella voce limpida di Tommy e Annika, riconosciamo lo scorrere quieto del quotidiano, con la scuola, i giochi nel prato, le piccole fiere di paese. Pippi rompe gli schemi dichiarando da subito la sua straordinarietà: laddove c’era il rischio di astrarre il bambino in un’infanzia ideale – e nel caso di Pippi oserei dire utopica – vengono in soccorso ad Astrid Lindgren i bambini, quelli in carne ed ossa che hanno popolato la sua vita, quelli incontrati per strada, nelle aule scolastiche, i figli di amici e parenti che abitavano le città e i paesi della Svezia come i nostri bambini oggi abitano la loro città e la natura tra le case.
Se uno scrittore italiano scrivesse del presente dei bambini nessun adulto avrebbe bisogno di pensare all’infanzia (ideale o meno): leggendo gli batterebbe il cuore per qualcosa che riconoscerebbe subito come autentico, saprebbe che lì si racconta semplicemente di un bambino.
Nel lettore adulto fiorirebbe all’istante un sentimento che non ha più bisogno di case sull’albero, di giocattoli in “materiali naturali”, di sospirare un contatto con la natura.
Noi la natura la vivevamo così, nel prato sotto casa, nei gerani e nelle rose che l’anziano della porta accanto coltivava sul balcone o lungo la recinzione, nel rosmarino e nella salvia seminati per l’arrosto della domenica o per il soffritto, nella neve di maggio che copiosa cadeva dagli immancabili pioppi di quartiere, nel salice piangente infestato di scarabei, nel cespuglio di S.Giuseppe che nascondeva nell’intrico dei rami una grotta nella quale nascondersi. Non era meno Natura di quella del bosco: era la nostra Natura con i suoi odori e profumi, con i suoi grilli, le sue zanzare, la sua erba falciata e i ragni lungo i fili del bucato.