Fra le mie braccia
di Emile Jadoul, Babalibri.
Mi spiace segnalare ancora un libro della Babalibri, ma questa casa editrice, molta apprezzata dal pubblico, dai librai e dal personale scolastico, nel suo vasto catalogo, comprende oltre a capolavori noti e meno noti (penso al “Palloncino rosso” di Iela Mari, a “Nel paese dei mostri selvaggi” di Sendak – tra i titoli ereditati dalla Emme Edizioni – e a “Vita segreta nell’orto” o a “Luna e la camera blu” – tra gli albi più recenti) anche tutta un serie di libri a tema che, a mio avviso, troppo ammiccano ai genitori e alle insegnanti dei piccoli lettori.
Emile Jadoul, autore di “Fra le mie braccia”, e che per Babalibri ha già firmato altri cinque albi (“Bacioespresso”, “Le mani di papà”, “Papà-isola”, “Scacciabua” e “Sulla mia testa”), qui si cimenta con il tema dell’arrivo del fratellino.
La storia inizia quando il fratellino appena nato viene portato a casa; in questo caso non c’è riferimento alcuno alla fase della gravidanza, e la storia si concentra da subito sul rapporto tra i due fratelli, Leone e Mattia, entrambi pinguini (animale che negli ultimi dieci anni ha goduto di una straordinaria popolarità nei libri – e non solo – per i bambini).
Come nel libro di Marianne Vilcoq, l’età del fratello maggiore è incerta ma, poiché Emile Jadoul – come del resto la Vilcoq – raffigura il pinguino con in mano il suo orsacchiotto (oggetto presente in tutte le tavole tranne una), possiamo presumere che Leone abbia più o meno tre anni.
L’oggetto transizionale nei libri a tema sulla maternità pare essere una costante. Seppure abbiamo già convenuto nell’analisi al libro della Vilcoq che l’orsacchiotto – o chi per lui – costituisca spesso uno stereotipo nell’immaginario adulto legato all’infanzia, la questione non è banale: sembra infatti che il bambino con il proprio pupazzetto venga percepito più fragile e insicuro. Di fronte ad un cambiamento come l’arrivo di un fratello, presentare il soggetto con vicino il proprio orsacchiotto non serve solo a stimolare l’empatia tra il protagonista e il piccolo lettore, ma è funzionale nel collocare fin da subito il protagonista in una situazione di partenza di grande insicurezza, suscitando nel lettore adulto, più che in quello bambino, un istinto di protezione e un moto di tenerezza.
Leone, dopo aver osservato il bambino nella culla, inizia a dimostrare preoccupazione per la futura “collocazione” del fratello. Basta girare la pagina per vedere Leone – già evidentemente in difficoltà – porre alla mamma una domanda decisamente fuori luogo sia rispetto alla sua presunta età, sia rispetto ad una tensione narrativa non ancora costruita:
“Resterà lì dentro per sempre, giusto?”
Perché un bambino di appena tre anni dovrebbe formulare un pensiero di questo tipo? A suggellare ulteriormente l’impressione che la domanda sia fuori posto nella bocca di un bambino, l’intercalare “giusto”. Molto più efficace e meno lontana (per quanto il pensiero che Leone fa rimane a mio avviso ancora fuori dalla sua portata) sarebbe stato scrivere
“Resterà lì dentro per sempre?”
La risposta che la mamma fornisce a Leone è
“On no, non per sempre. Crescerà!”
Da qui in avanti la storia si snoda in modo ripetitivo con Leone che elenca tutti i posti dove il fratello non potrà stare perché tutto lo spazio a disposizione è già occupato da lui che è il primogenito: sulle ginocchia della mamma quando legge una storia, tra le braccia della mamma perché sono troppo grandi per Mattia (un’affermazione a mio avviso piuttosto stramba e incoerente), sulle spalle di papà perché troppo in alto, tra mamma e papà quando si passeggia per mano.
Si potrebbe notare come l’orsacchiotto di Leone in queste tavole fa le veci del fratellino: le dimensioni sono le stesse e viene da pensare che se c’è posto per l’orso ci potrebbe essere il posto per Mattia. Ad avvalorare questa ipotesi il fatto che nell’unica tavola in cui Leone non ha con sé il pupazzo è l’unica in cui realizza quale sia il posto del fratello, ovvero tra le sue braccia. Questo slittamento di piani tra l’orso inanimato e il fratello, a livello psicologico, potrebbe non essere così funzionale né da un punto di vista del significato né da un punto di vista affettivo.
Quando però Mattia si sveglia e Leone lo sente piangere, Leone viene colto da un’illuminazione e decide che il fratellino potrà stare bene tra le sue braccia; ovviamente che tutti vissero felici e contenti lo si deduce dal bel quadretto finale in cui Leone, seduto sul divano, con in braccio Mattia, è osservato con amore e soddisfazione dai genitori (notare come nell’illustrazione non ci sia nessuna differenza tra il volto del padre – che per altro sembra fare cucù dallo schienale del divano – e quello di Leone).
Onestamente non saprei cosa salvare di questo albo: nella storia non esiste la premessa per scatenare la gelosia di Leone, che gli viene attribuita a prescindere. Un particolare di non poca importanza se si pensa che i genitori che scelgono questo tipo di albi hanno già deciso a priori che il primogenito soffrirà di gelosia all’arrivo del fratello. L’autore quindi non si pone nemmeno il problema di giustificare i sentimenti di Leone, adducendo come unico pretesto l’arrivo in casa del fratello. Un errore semantico a mio avviso piuttosto rivelatore di cosa si cerchi in un libro a tema.
Le considerazioni che Leone fa non sono a sua misura: il pensiero di un bambino di tre anni è molto più istintivo e indisciplinato di come ci viene descritto da Emile Jadoul e di certo non approderà alla conclusione illuminante a cui giunge Leone. Anche se non così esplicitamente come “Nel pancione della mamma”, la voce dell’adulto non è qui immediatamente sostituibile a quella del bambino, ma assistiamo ad un’operazione altrettanto insidiosa, ovvero quella che vede il piccolo lettore totalmente immerso nel pensiero dell’adulto.
L’albo “Fra le mie braccia” è pensato da un adulto che non riesce a comprendere il pensiero bambino e scrivendo si rivolge dunque ad un pensiero di un altro adulto che molto probabilmente come lo scrittore crede che la gelosia sia un sentimento inevitabile quando si tratta di fratelli. Anche se la gelosia fraterna fosse inevitabile, credo che il bambino abbia il diritto di avvicinarsi alle storie in piena libertà e di non trovarsi catapultato in un libro che tratta evidentemente una paura adulta.
E mi si potrebbe obbiettare che l’albo di Jadoul, come tutta la letteratura, condensi in poche pagine e quindi per forza esemplifichi una situazione comune come quella dell’eventuale gelosia per un fratello. L’esemplificazione può avvenire o attraverso un racconto che con sapienza descriva davvero la quotidianità di un bambino e non è questo il caso del libro di Jadoul) o attraverso il piano metaforico.
Purtroppo anche il livello metaforico in questo libro è assente e non può essere ridotto alla frase “qui nelle mie braccia” investendo quelle braccia di tutta una serie di significati impliciti come il bene, l’affetto fraterno, l’accoglienza… Il livello metaforico di una simile affermazione è poi ancora più labile dato che fino ad un attimo prima il pinguino ha elencato cose piuttosto concrete conducendo il lettore bambino ad un gioco di rimandi tutt’altro che astratti (e ribadisco che le considerazioni di Leone sebbene concrete e realistiche non appartengono al pensiero di un treenne).
A mio avviso se si vuole usare la metafora per affrontare situazioni come queste, bisogna innanzitutto costruire la storia con coerenza e, in secondo luogo, avere il coraggio di uno sguardo privo di pregiudizi perché solo attraverso la visione dello scrittore sarà possibile per il lettore scegliere il sentiero più adatto al proprio sentire, e allenare così un pensiero divergente e critico sulla vita.
Strisce e macchie
di Ipcar Dahlov, Orecchio acerbo.
Se volete narrare una storia che parli del rapporto tra due bambini che dovranno imparare a convivere, ma desiderate restare su un piano metaforico, allora vi propongo l’albo di Ipcar Dahlov, “Strisce e macchie”, edito da Orecchio Acerbo.
La storia è quella di un cucciolo di leopardo, tutto macchie, e di un cucciolo di tigre, tutto righe. Entrambi fanno parte di una cucciolata, ed entrambi decidono, lo stesso giorno, di provare a procurarsi il cibo da soli.
Le due storie procedono in parallelo – e con volute simmetrie narrative – fino a quando i due cuccioli non si incontrano casualmente nella foresta. Decidono allora di predare tutto ciò che è a macchie – probabilmente il pasto ideale per un leopardo – e tutto ciò che è a righe – forse il cibo prediletto di una piccola tigre; peccato che tutto ciò che nella foresta è a righe o a macchie, non risulti molto appetibile per i giovani felini (solo fiori, insetti, e foglie risultano infatti avere queste precise caratteristiche). I due amici perciò, abbandonata l’idea di sfamarsi, si dedicano all’esplorazione della giungla con le sue scimmie, le sue gazzelle e i suoi coccodrilli; spaventati da questi ultimi, e per di più stanchi e affamati, i cuccioli torneranno ognuno dalla propria famiglia e si sazieranno con l’unico alimento che nella sua purezza, scalda il cuore di entrambi, il latte materno.
Se togliessimo le strisce e le macchie dal mantello dei due animali, nell’illustrazione di Dahlov, i due cuccioli risulterebbero identici. I fratelli, pur nelle loro evidenti differenze, fin da quando si trovano a vivere sotto lo steso tetto, si portano addosso una certa “aria di famiglia”. Le macchie e le strisce diventano allora il simbolo di una differenza evidente e peculiare che tuttavia non impedisce loro di esplorare la vita insieme e di apprezzare anche le stesse cose; la personalità, sembra suggerirci l’autore, è legata ai dettagli, unici e preziosi e diversi per ogni essere vivente.
Come nell’albo di Emile Jadoul, anche qui assistiamo ad una storia dove i protagonisti sono due animali che rivestono sentimenti umani (un meccanismo narrativo antico, dalla favola di Esopo fino ad arrivare ai racconti illustrati di Beatrix Potter, madrina di tutti i protagonisti animali degli albi moderni e contemporanei); ma al contrario de “Fra le mie braccia”, dove il tema è declinato in modo pedissequo e ostinato, in “Strisce e macchie” la storia si snoda libera ed il piano metaforico si adatta a molteplici visioni: si può parlare di amicizia, di scoperta, di rapporto fraterno e materno, di paura e coraggio, di consolazione e rassicurazione, o ancora meglio, si può non parlare affatto, lasciando che la storia svolga nel silenzio e nella bellezza di immagini e parole, il suo compito più prezioso, ovvero quello di capire la vita.
Essendo questa una bibliografia di confronto tra libri sul tema della maternità, mi vedo in un qualche modo costretta ad esplicitare alcuni significati della storia di Ipcar Dahlov, per far sì che il testo aderisca ad una visione precisa, quella cioè del rapporto tra due fratelli. Anche se tale interpretazione non è estranea alla storia, qualora voi decideste di proporla al bambino in un particolare periodo della vita quale l’attesa di un fratello, vi consiglierei di farlo con leggerezza e fiducia, lasciando che il racconto compia il suo percorso a livello intuitivo.
Potrebbe darsi che il bambino non colga immediatamente, come accade nel libro di Jadoul, ciò che a voi preme egli prenda dalla storia, ma non è compito degli adulti, né del resto dell’autore, forzare la lettura in tal senso.
Nemmeno l’albo di Jaodul sarà risolutivo, anzi! Quello che si chiede ad un genitore è di accompagnare il bambino nella vita, di lasciare che i sentimenti, anche negativi, si esplicitino, e di lasciare le storie fuori da tutto questo, perché esse, più sono libere, più riescono a consolare, a spiegare, a lenire, a comprendere.
Se deciderete di regalare l’albo “Strisce e macchie” ad un bambino provate ad immaginare di non spiegare, di non restare in attesa per vedere se la metafora davvero funziona. Certo il libro di Emil Jadoul potrà sembrarvi più immediato, più consolatorio, ma abbiamo visto prima quante falle ci siano nel suo ragionamento.
“Strisce e Macchie” al contrario, non ha nessuna pretesa, se non quella di raccontare una storia, piccola, dolce che può essere proposta già ad un bambino di due anni.
“Strisce e Macchie” non parla dell’arrivo di un fratello, è vero, eppure quel latte materno dell’ultima pagina, quel procedere simmetrico, quelle due famiglie così diverse eppure così uguali, sono così pregnanti! E che dire poi delle due ninna nanne finali? Mamma tigre elenca attraverso il verso poetico ( che meraviglia!) tutto ciò che nella savana è a righe, mentre Mamma leopardo canta della giungla tutto ciò che è a macchie. Due figli, due visioni del mondo diverse, anche se il mondo da esplorare, conoscere è sempre lo stesso. Si è madri in modo differente per ogni figlio, perché ogni figlio è differente l’uno dall’altro, ma l’amore è sempre lo stesso.