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Nel pancione della mamma
di Jo Wiltek e Christine Roussey, Gallucci
Sono consapevole che questo albo edito dalla Gallucci sia molto amato. Le illustrazioni di Christine Roussey sono gradevoli e delicate, contrariamente ai colori chiassosi tipici dei libri a tema (pare ci sia una strana corrispondenza tra il libro a tema e una certa visione del mondo del bambino fatto di tinte squillanti, contorni curvilinei e orsetti paffuti). Il testo ambisce ad una struttura poetica, con una rima che solo ogni tanto compare a chiudere il verso. La storia è quella di una bambina che sta davanti alla pancia della mamma e che, aspettando la nascita del fratello, parla con lui in un monologo che vorrebbe diventare un dialogo, tutto giocato sulla dialettica tu dentro/io fuori. L’insieme di immagini, testo e impostazione grafica risulta piacevole e il libro riscuote, in genere, un buon successo. Ma ancora una volta mi chiedo: per chi questo libro è molto attraente?
Verrebbe da dire per il bambino visto che il libro, per essere ancora più appetibile, è stato munito di finestrelle, aprendo le quali si vede il nascituro nel ventre materno (sempre molto piccolo in proporzione alla pancia che cresce). C’è dunque il bambino nella pancia, la futura sorella (la voce narrante), ma non incontriamo mai il viso della madre (l’inquadratura prevede solo la visione del suo ventre e delle gambe nella tavola finale) né tanto meno ci si imbatte nelle figura del padre (citato tuttavia due volte nel testo).
E’ chiaro da questa scelta di campo – e di inquadratura – che i protagonisti sono il bambino in utero e la sorella che lo aspetta. Come nel caso del libro di Marianna Vilqoc, il bambino nella pancia è ovviamente muto, ma risponde con assoluta empatia al dialogo che la sorella immagina avere con lui. La madre e il padre non sono chiamati in causa nella relazione e dunque nella narrazione, eppure si ha continuamente l’impressione che l’autrice si rivolga più a loro che al bambino.
Il registro narrativo oscilla tra parole come bagnetto, faccino, angioletto mio, lacrimone, canzoncine, e parole che disegnano concetti più sofisticati:
“la torta è squisita/mentre aspetti la vita”,
“l’acqua della vita”,
“ la casa ha un profumo di un mattino di primavera”,
“…scoprirai la vita qui e i suoi colori/vedrai che bello vivere nel mondo!”.
Le parole disegnano costellazioni di senso e, anche se oggi ci si fa sempre meno caso, veicolano messaggi precisi, alcuni dei quali ancora lontani dalle esperienze di un bambino. Questo non vuol dire che non si debba usare un lessico ricco e bello quando si scrive per i bambini, ma che l’autore non deve mai perdere di vista il suo interlocutore, specie se si avventura in un terreno minato come quello riguardante una tematica specifica, fatta di locuzioni ben consolidate e di modi di dire che potrebbero non essere significativi per il lettore bambino, appena sbarcato sulle rive della sua cultura di riferimento.
Trovo quindi che “Nel pancione della mamma” sia un libro piuttosto ambiguo perché come ho già avuto modo di dire in un mio precedente articolo, quest’albo pare ammiccare all’adulto fingendo di parlare al bambino.
E’ molto difficile, mi rendo conto, essere d’accordo con me perché leggendo “Il pancione della mamma” a un bambino, probabilmente raccoglierete pareri positivi.
Dunque se è il bambino a dare la sua approvazione perché dire che questo è un libro per adulti? Non è la prova più evidente della sua efficacia se al bambino piace?
Il lettore bambino è un lettore onnivoro, il che non vuol dire che non abbia i suoi gusti, ma che data la sua tenerà età, è intento ad affinarli (ricordiamoci, come già ribadito nella premessa a questa contro-bibliografia, che un libro a tema è di solito presentato a bambini sotto i sei anni di età). Per mettere a punto le proprie preferenze bisogna provare e riprovare, essere aperti al nuovo, sperimentare, ascoltare…
I bambini sono maestri in questo, perfino i più vivaci dimostrano una tenace concentrazione se gli si offre un diversivo allettante.
Se portate un bambino a una festa di compleanno in un chiassoso fast-food, lui molto probabilmente vi dirà che si è divertito, mentre voi forse tremate al solo pensiero di dover accettare un altro invito in un luogo simile. Un libro non è un fast-food e l’albo di Jo Wiltek non è tra i peggiori libri a tema che si possono trovare sul tema maternità, ma credo sia necessario non allentare il nostro senso critico solo perché il testo ci appare dolce, amorevole e pieno di buoni sentimenti, né tanto meno non porci più domande solo perché al bambino un libro è piaciuto.
Come già ribadito nella premessa al primo confronto, questa contro-bibliografia spinge la sua analisi oltre la prima impressione, nella convinzione che una lettura iniziale o il compiacimento del bambino non possano essere sufficienti per continuare a fare di un libro a tema un buon libro, così come non possiamo non maturare dei dubbi sul fatto che un bambino si diverta davvero a un compleanno in un fast-food.
I gusti si affinano se gli strumenti dati al bambino sono buoni strumenti e non se quest’ultimi sono unicamente sottomessi alla logica del mi piace/non mi piace, perché in simili circostanze il rischio è quello di costruire un senso critico fittizio.
Prendiamo i seguenti versi:
Dormi? Hai paura?
La notte è scura?
Non ti preoccupare, non vado via.
Mi senti vicino vicino?Un bacio, una carezza:
tengo questa bella palla tonda
tra le mie piccole mani
e ci soffio sopra perché tu stia
al caldo fino a domani.
Prendiamo in esame la prima quartina: può una bambina di quattro, sei anni aver già sviluppato un sentimento materno così potente verso un fratello che nemmeno riesce a vedere? Mi pare si scada qui nello stereotipo di affibbiare alle bambine un’innata capacità di occuparsi dei piccoli.
E’ inoltre una bambina molto saggia (e poco bambina) quella che non ha più paura del buio, che resta la notte accanto a un fratello invisibile, lo accarezza e lo tiene al caldo. L’illustrazione di Christine Roussey spinge ancora oltre il senso di cura e responsabilità espresso dai versi, proponendoci una bambina che si interpone tra la pancia e il buio reggendo una lanterna accesa mentre l’oscurità, che in teoria dovrebbe essere minacciosa, manda baci al bambino nel ventre materno.
[E se da un lato l’illustrazione pone l’accento sull’amorevolezza della bambina, quel buio tanto affettuoso non crea uno scarto quasi schizofrenico tra il testo e l’immagine? Non dovrebbe infatti fare paura la notte scura?]
Se nell’albo di Marianne Vilcoq la futura sorella era arrabbiata per l’arrivo del fratello, qui invece abbiamo una sorella dolce, premurosa, molto materna.
In entrambi i casi dove si trova il vero sguardo bambino? Non sto chiedendo ai libri per bambini di essere ferocemente aderenti alla realtà per essere credibili – molti sono i casi illustri in cui le metafore dell’immaginario rivelano corrispondenze stupefacenti con la quotidianità dell’infanzia – ma di tenere presente che il referente della storia è il bambino, un lettore per molti versi “acerbo”, che non può riconoscersi in situazioni a misura dei sentimenti adulti. “Nel pancione della mamma” mi sembra un albo confezionato sul sentire materno, vissuto ed esplicitato, in proiezione, attraverso una voce bambina.
La prova di quanto dico la si può ottenere se si legge il testo sostituendo la voce della madre a quella della bambina.
Prendiamo questi versi:
Ci vogliono nove mesi per fare un bebè.
Ma che giornate lunghe senza di te!
Per ingannare il tempo ti faccio il ritratto.
La bocca, gli occhi, il nasino
quel tuo buffo faccino…
T’invento.
Chi sta parlando? L’autrice ha perso di vista, a mio avviso, la prima regola fondamentale quando si scrive per dei bambini: sapere chi è il bambino.
In un carteggio con Barbro Lindgren, Astrid Lindgren scrive:
Mats [il protagonista di una storia che Barbro Lindgren ha sottoposto ad Astrid Lindgren, qui in veste di editor per la Rabén & Sjögren ] è un bambino simpatico che piace facilmente. Lo stesso vale per l’autrice, che ne sa molto, di bambini. Ma non sa altrettanto bene come fare a costruire e mantenere alto l’interesse di chi la legge.
Questo stesso problema è alla base del fallimento di molti altri scritti. L’Autrice
semplifica il proprio compito saltando da un episodio ad un altro senza realmente trarne il massimo. Se fossi in Lei, non farei scappare Mats dai nonni, in questo libro. Lo farei caracollare nei dintorni di casa a Vanadisvägen in compagnia di Lillpelle e di Limpan. Non è necessario che abbia esperienze eccezionali, ma che le sue esperienze siano ben costruite.
Temo ci sia oggi un bisogno estremo dell’adulto di vivere le proprie esperienze attraverso l’immaginario infantile. Non a caso la letteratura per l’infanzia gode, da circa quindici anni, di un periodo particolarmente prolifico anche grazie alla passione sviluppata da molte madri per questo genere letterario; sono molti i genitori che si sono riavvicinati alla letteratura grazie all’albo illustrato e che, però, non comprano spesso un libro per sè (confessioni da libreria).
Forse non essere più lettori o lettrici (e ben sappiamo come sia la situazione italiana in quanto a libri letti pro capite in un anno), porta gli adulti a non saper più distinguere quando un libro per bambini parla a noi o si rivolge al bambino. Ma il bambino continua ad avere bisogno di libri veri, di storie, di esperienze , come scrive ancora la Lindgren, non per forza eccezionali (come del resto è riuscire a parlare con un bambino non ancora nato) ma di esperienze ben costruite.
Certo Pippicalzelunghe – la bambina più celebre della Lindgren – era davvero eccezionale, ma tutto il suo personaggio è costruito su questa eccezionalità, diventando archetipico, ovvero l’immagine stessa dell’infanzia, quindi credibile (ne abbiamo parlato qui) Il topos letterario, così come l’archetipo, condensano e non semplificano, e sono esattamente l’opposto dello stereotipo. Lo stereotipo nei libri a tema è quello, per esempio, della bambina che parla al fratellino nella pancia (tant’è che quasi tutti gli albi sulla maternità si fondano su questo dialogo fittizio), una situazione che aderisce a una visione d’infanzia molto addomesticata, adulta e in molti casi forzata.
Pupupidù
di Benjamin Chaud, Panini.
Abbiamo concluso l’analisi del libro di Jo Wiltek, accennando a Pippicalzelunghe che, contrariamente a Lotta, a Pelle Melkerson (delle “Vacanze all’isola dei gabbiani”) a Rasmus e a Ronja – tutti bambini nati dalla sua penna – , vive al confine tra realtà e immaginazione, una bambina sciamana, capace di rivelare, a chi la sa ascoltare, le cose segrete e invisibili. Ciò che Pippi ci svela è l’infanzia, un età fatta di mille contraddizioni, di cambiamenti repentini, di implacabili giudizi, di incoerenza, di un’intesa profonda con la natura e i suoi misteri, di sentimenti ed emozioni debordanti.
Considerata a lungo diseducativa, Pippicalzelunghe è l’espressione più pura dello spirito bambino. E se il libro a tema pone più o meno esplicitamente l’accento su una sua funzione educativa (il pancione della mamma non vuole forse mostrare un modello apprezzabile di fratellanza?), le storie, quelle belle, rompono il cerchio dell’indottrinamento con situazioni dove è possibile esercitare ancora la propria immaginazione, dove il lettore è libero di prendere ciò che vuole, dove le strade sono molteplici.
Il bosco delle Fiaba contro la morale delle Favola. Nelle storie vere il rapporto tra adulto e bambino è alla pari, entrambi i soggetti possono tentare il tuffo, immedesimarsi, compiere il viaggio. Rivolgendosi al bambino, l’autore o l’autrice parla anche al cuore adulto, in un percorso che non può essere intrapreso al contrario: non si può parlare al cuore bambino con un albo che proietta nella storia un sentire adulto.
E se è vero, come scrive la Lindgren, che non abbiamo sempre bisogno di esperienze eccezionali per parlare ai bambini, voglio seguire, in questo secondo confronto, la strada di Pippi, contrapponendo “Pupudidù” di Benjamin Chaud all’albo di Jo Wiltek.
Vorrei proporre ai bambini una storia strampalata, onirica, per attivare in loro il linguaggio metaforico. Non voglio parlare esplicitamente di sorelle e fratelli o vedere pance che diventano via via più grandi. Non voglio confondere i piani della realtà e della fantasia – “Nel pancione della mamma” i due piani slittano continuamente l’uno sull’altro senza coerenza e, peggio, senza intenzione -, voglio stare tutta dalla parte dell’immaginazione. Da una parte il libro di Jo Wiltek con le sue finestrelle, dall’altro l’albo di Benjamin Chaud con i suoi buchi, da un lato le illustrazioni di Christine Roussey poetiche e rarefatte, dall’altro le esplosive coloratissime tavole di Benjamin Chaud.
Orsetto si sveglia in una mattina di primavera e si mette in cammino. La strada però, come nelle migliori avventure, riserva delle sorprese: ci sono pertugi segreti in cui infilarsi, tunnel nascosti che conducono in scenari completamente differenti da quelli da cui si proveniva. Seguendo l’Orsetto il lettore si ritrova davanti ad una grande tenda da circo. Che si fa? Entriamo? Cosa ci sarà dall’altra parte e chi incontreremo?
Spesso un bambino vive l’arrivo di un nuovo esserino in famiglia come qualcosa di magico e improvviso. Non importa se ha visto crescere la pancia della mamma, se gli è stato detto, raccontato, spiegato… i bambini sanno cogliere più di chiunque altro l’incanto e la meraviglia della vita. Chi in fondo sa spiegare davvero cosa succede? Quello sbocciare improvviso, quell’attimo sospeso nel tempo dove il “c’era una volta” diventa realtà, dove l’assenza diventa presenza, dove il cuore di una mamma e di un papà si fanno più grandi per ospitare un altro figlio; è davvero pura magia, un fuoco d’artificio, un numero da circo che condensa tutta la destrezza e la fatica in un “et voilà!”… e noi ne siamo già stregati.
Ecco allora che Orsetto, sparato dal cannone, si ritrova con il muso dentro ad una scatola che Mamma Orsa, comodamente adagiata sulla luna, tiene tra le braccia.
Che bella una mamma sulla luna! La luna è il materno, l’inconscio, il mondo altro dei poeti, lo straordinario a portata di binocolo, il luogo “appena un po’ più in là” dove tutti i bambini desiderano andare. Una mamma che aspetta è una luna crescente, una curva che si fa sempre più tonda fino a contenere tutta la luce del suo piccolo sole.
Mamma Orsa tiene tra le braccia una scatola e in fondo alla scatola ci sono due occhietti, di chi saranno? Di un Orsetto ancora più piccolo che d’ora in poi farà parte della famiglia Orsi. La famiglia Orsi – in questo albo c’è sempre anche il papà – è formata da equilibristi provetti che cadono volentieri nel mondo dei sogni e della metafora quando è l’ora.
Bene, non c’è luogo migliore per accogliere la meraviglia della vita che in un sogno dentro a un sogno, di ritrovare il mistero dell’esistenza infilandosi, come fa orsetto, in scenari sempre diversi. Le metafore sono il luogo perfetto per un bambino per abbracciarsi, capirsi, piangere. Non occorrono tante parole, basta solo sognare insieme e condividere il meraviglioso.
Vi auguriamo una lettura straordinaria in cui godersi la storia per il gusto della storia, senza dire nulla di più di quanto già raccontato da Benjamin Chaud.
E ora “Shhh”… i due Orsetti sognano insieme… lasciamoli dormire tranquilli.
Un pensiero su “Contro-bibliografia ragionata sulla maternità #3 | Nel pancione della mamma VS Puppipidù”