Che rabbia! (…e Nel paese dei mostri selvaggi) – Due albi illustrati a confronto

“Che rabbia!” di Mireille D’Allancè, edito da Babalibri, non è, a mio avviso, un libro aspirina, ma lo è diventato.
Mi piacerebbe in questo consiglio di lettura potervi far riflettere sul perché questo è accaduto e perché, al contrario, io ritenga questo albo efficace e onesto.
Per argomentare la mia tesi ho deciso di avvalermi della straordinaria forza di un albo esemplare: “Nel paese dei mostri selvaggi” del grande Maurice Sendak. “Nel paese dei mostri selvaggi” non è solo un capolavoro di perfezione, ma è anche l’antesignano di tanti albi famosi, tra i quali certamente “Che rabbia”. Contrariamente all’albo di Mireille D’Allancè, “Nel paese dei mostri selvaggi” in virtù della sua perfezione e dei misteri che contiene (una storia surreale capace di provocare suggestioni profonde) non è mai stato oggetto di fraintendimenti: forse qualcuno ci ha provato a farlo diventare un libro aspirina, ma non c’è riuscito.

Il primo errore di interpretazione riscontrabile in “Che rabbia!” non è commesso dal lettore, ma dalla casa editrice. Il titolo, così marcatamente ammiccante e così esplicito, risulta fuorviante rispetto alla storia. Anche nell’edizione francese la situazione non cambia: in copertina leggiamo “Grande colère” ovvero Grande rabbia.
Mi piacerebbe poter domandare all’autrice se ha suggerito lei stessa il titolo o quest’ultimo è stato caldamente incoraggiato da una casa editrice decisa a cavalcare l’onda di un filone educativo-emozionale sempre più in voga nella letteratura per la prima infanzia. La curiosità nasce dal fatto che in tutto l’albo la parola rabbia non viene utilizzata nemmeno una volta e Roberto, il protagonista, si trova ad affrontare uno strano essere definito “La Cosa”.

Giornata terribileSono sicura che se il titolo fosse diverso, l’albo di Mireille D’Allancè non riscuoterebbe lo stesso successo. E’ probabile che una storia ben congegnata diventi ugualmente famosa, ma sono persuasa che maestre, educatrici e genitori non comprerebbero questo libro con lo stesso entusiasmo se si intitolasse “La cosa”. E lo dico perché ogni volta che lo vendo, noto la soddisfazione con cui genitori e maestre ripongono “Che rabbia” nella borsa, accompagnando il gesto con il sorriso di chi pensa di aver acquistato un albo utile, taumaturgico e provvidenziale.
E’ in effetti l’approccio dell’adulto a trasformare questo albo, già di per sé evocativo, in qualcosa di più, e quel qualcosa di più svilisce o esaspera la storia di Roberto. Facciamo un esempio: non c’è nido o scuola d’infanzia che non abbia costruito la scatola della rabbia, facendo slittare l’attenzione del bambino su un particolare che non è il fulcro del racconto.
Il punto di forza dell’albo di Mireille D’Allancè consiste non nel mostrare un bambino capace di contenere e domare un’emozione, ma nel lasciare che il bambino viva il suo disagio da solo; scatola o meno, quello che conta davvero è l’assenza pregnante del genitore. Se le maestre fanno costruire la scatola prendendo parte al processo di liberazione e poi d’inclusione di un’emozione, tradiscono la delicatezza e l’intimità di un atto che, per l’autrice deve rimanere invisibile e privato. Chi di noi vorrebbe essere visto mentre lotta con un sentimento di collera o di dolore profondo? Ci sono cose che devono rimanere per noi stessi, anche se si è bambini. Inoltre l’idea di urlare e poi di contenere la disperazione all’interno di un luogo chiuso e privato, è un’azione ben nota nel mondo delle fiabe: giovani principi diseredati o fanciulle ripudiate ritrovandosi soli con il proprio dolore o con un segreto ingombrante, decidono di liberarsene svuotando la propria coscienza in un buco scavato nella terra o in un forno. Nella fiaba capita poi che il forno o il buco, preservino l’eco delle parole del malcapitato, rivelandole a chi di dovere per portare così la vicenda verso un finale positivo. In ogni caso che i sentimenti vengano rivelati o meno, il gesto convulso e disperato di parlare ad un buco che diventa metafora di un baratro interiore, avviene sempre in segreto anche nella fiaba.

 

scatola della rabbiaCi sono albi che per un eccessivo uso didattico e pedagogico vengono spremuti fino all’ultima parola o letti ad oltranza tutti i giorni per un intero anno scolastico nella speranza che i bambini interiorizzino un concetto o una modalità di comportamento.
“Che rabbia!” è un albo che come “Nel paese dei mostri selvaggi” di Maurice Sendak, vive di un delicatissimo equilibrio narrativo, e basta davvero un istante per strumentalizzare le sue parole e la sua semplice, ma potente, forza narrativa.
Portare fuori dalla storia la scatola costringe il genitore (o l’insegnante) a diventare garante di una situazione che nel libro non trova la sua naturale conclusione nella carezza di approvazione dell’adulto, ma nella riconquistata tranquillità di Roberto che ora è pronto a condividere quel che resta della cena.
L’equilibrio di “Che rabbia” è instabile e precario (molto più che nel libro di Sendak che, grazie alla sua profondità, si difende da solo) perché tutto si gioca sul filo di lana dello sguardo dell’adulto. Purtroppo, come dicevamo, il titolo non aiuta ad abbandonare qualsiasi pretesa di redenzione da capricci e nervosismi attraverso la storia di Roberto, ma al contrario invita maestre e genitori ad un approccio giudicante e pregiudicante.

Ma perché “Che rabbia” non è un libro aspirina?

Vai in camera tua“Che rabbia!” inizia in medias res ovvero a vicenda già avviata: tutto ciò che è successo a Roberto prima che varcasse la soglia di casa si condensa in una giornata terribile (ed è interessante per un bambino prendere atto che anche lui può passare delle giornate poco piacevoli.)
Anche Sendak in “Nel paese dei mostri selvaggi” inizia il suo albo con la stessa modalità: “Quella sera Max si mise il costume da lupo e ne combinò di tutti i colori/e anche peggio”.
In entrambi gli albi non ci è dato sapere troppo. Come spiegare in effetti una giornata terribile? Quando ci capitano le cosiddette “giornate no”, possiamo solo affermare che nulla è andato per il verso giusto, inutile dilungarsi troppo. E quando i bambini ne combinano di tutti i colori? Meglio non fare l’elenco di ciò che non ha funzionato. In entrambi questi inizi le piccole o le grandi cose taciute, sono più evocative di un’inutile lista di banalità.
Perché dunque chiedere ai bambini di esplicitarle?
Lasciamo che l’immagine di Roberto con la scarpa sinistra slacciata, la palpebra destra abbassata, la racchetta bucata o di Max ululante lungo le scale, ci portino in una dimensione caotica senza sottolineature né sbavature, lasciamo semplicemente che sia una giornata terribile o una serata eccessivamente euforica.

combinarne di tutti i coloriIl non detto crea le premesse per quello che accadrà dopo: il vaso è talmente colmo che deve traboccare per potersi svuotare. Il senso di nausea di Roberto è dato da un’abbuffata indistinta di situazioni sbagliate e l’unica cosa che sappiamo è che, in qualche modo, ciò che non può essere contenuto troverà la strada per uscire: sarà La Cosa per Roberto, e un mondo selvaggio per Max. Entrambi producono un effetto trasformativo (distruttivo per Roberto, destrutturante per Max) sul loro mondo e lo mettono in atto a partire da un sentimento forte ed esplosivo. In entrambi i bambini è l’apparato digerente ad essere bisognoso di attenzione: vomitare, sbranare sono meccanismi legati all’oralità (intesa in senso psicanalitico), un bisogno potente di addentare la vita o di rifiutarla. Nel “…e io ti sbrano” che Max rivolge alla mamma c’è un’incredibile potenza lessicale.
Sbranare non è un verbo di uso comune e quando propongo il libro di Sendak ai miei lettori (parrà strano ma “Nel paese dei mostri selvaggi” non è così conosciuto come si pensa) e arrivo a leggere questa frase di Max, vedo spesso stendersi sulla storia un primo velo di ostilità. Sbranare è fare a brandelli, ridurre la preda in mille pezzi, sentire la carne sotto i denti. Max del resto è stato appena definito dalla mamma Mostro selvaggio e noi possiamo avvertire come queste due parole vicine creino già una ridondanza pregnante: conoscete infatti un mostro che non sia selvaggio? E’ proprio vero che quando litighiamo ci escono gli epiteti più furibondi e divertenti!
Così tanto ti amiamoUn mostro selvaggio potrà dunque semplicemente mangiare? Il re dei mostri selvaggi può solo dire “e io ti sbrano”; ma è in questo verbo così sapientemente scelto da Sendak che noi troviamo condensato tutto l’amore che Max prova per la sua mamma. Subito ci pare odio, ma non si può odiare con tanto impeto qualcuno se prima non lo abbiamo amato con altrettanto vigore. E saranno proprio i Mostri Selvaggi sull’isola di Max a farci capire il senso di quel io ti sbrano quando, disperati per la partenza del loro amato re grideranno “Non te ne andare, noi ti vogliamo mangiare così tanto ti amiamo!”. Ecco che nel regno dell’immaginazione gli autentici Mostri Selvaggi, dopo essere stati messi a letto senza cena, sono autorizzati ad esplicitare quello che Max tiene per sé o non ha ancora compreso. Del resto Max è un bambino e agisce in modo istintivo; è nel regno della metafora, in quel mondo altro dove ciò che ci era oscuro diventa chiaro senza bisogno di troppe parole o spiegazioni, che i mostri ci dicono che sbranare e mangiare sono atti d’amore. Pensate che il grande Maurice Sendak abbia detto una frase simile a caso? L’antropofagia è l’atto supremo d’amore e di possesso, un gesto che nel linguaggio metaforico sublima il desiderio di voler essere tutt’uno con l’oggetto d’amore, così da succhiarne la forza e l’essenza. Molte tribù mangiano il cuore degli animali feroci per portare dentro di sé la loro forza. Osservate un bambino piccolo: quanto i suoi baci sono simili a morsi? Come è simile il bambino piccolo all’uomo primitivo (e ad un mostro selvaggio!). Quanta famelica euforia riconosciamo in quell’abbracciarci e stringerci senza mezze misure? Noi ti vogliamo mangiare così tanto ti amiamo…

 

E Roberto?

Roberto ha fatto il pieno di tutto: lancia le scarpe, lancia le parole e non vuole mangiare gli spinaci. No, lui più che sbranare deve svuotare la pancia, non avrebbe tollerato un cucchiaio di vita di più. A letto senza cena fa brontolare lo stomaco di Max che di ritorno dal suo viaggio troverà una zuppa ancora calda. Roberto viene mandato in camera sua (senza cena) e potrà scendere solo quando si sarà calmato. La calma torna quando La Cosa viene messa nella scatola e badate che la scatola non viene mostrata a nessuno e potremmo perfino dubitare della sua esistenza (quindi perché costruirla? Non è meglio lasciare che sia un mondo nel mondo come l’isola dei mostri selvaggi per Max?). Alla fine la storia di “Che rabbia” si conclude così come era iniziata, ovvero in medias res: Roberto, a stomaco (davvero) vuoto, si affaccia alla porta di camera sua chiedendo se è rimasto del dolce.

Quando il contenuto dello stomaco esce, Roberto si sente finalmente sollevato. La Cosa potrebbe essere tutto: tristezza, rancore, rabbia, delusione, malinconia, amore… sappiamo solo che è rossa. Quante cose portano dentro di sé i bambini dopo una giornata terribile? E quanti mondi incontaminati possono creare i bambini selvaggi a partire dalle loro emozioni? Isole, deserti, montagne, mari…
Non c’è necessità di catalogare, di capire, di analizzare un sentimento. Chi ci riesce poi? La Cosa non capisce un bel niente in effetti: butta per aria tutto, si ribella ed è ostinata nella sua esuberanza. Lasciamola libera, in fondo è solo così che Roberto può sentirne la forza. La libertà si definisce attraverso i confini che le creiamo, ma se prima non abbiamo provato cosa significhi non avere limiti difficilmente riusciremo a contenerci. Max viaggia in lungo e in largo, per un anno e poco più; la libertà per Max è fatta da uno spazio e da un tempo dilatati e imprecisi in cui lui stesso si ritrova sperduto.
Sendak 2Come smarrito è Roberto davanti alla forza devastatrice della Cosa. La paura, la collera e la frustrazione a volte vanno affrontate e sperimentate in solitudine, avvalendosi unicamente delle proprie forze. State tranquilli: Max domerà i mostri selvaggi (li caccerà pure a letto senza cena) come Roberto ridimensionerà La Cosa (sgridandola e mettendola nella scatola). Vi basta solo aspettare, donare ai bambini fiducia e libertà.

La libertà è la chiave di questi due albi. E se i bambini potranno sperimentare attraverso il racconto la libertà di gestire i propri sentimenti, genitori e maestre si potranno provare con la libertà dello sguardo. Assaporeranno questa libertà nel momento in cui decideranno di non costruire scatole, di non chiosare immagini e parole (lo potranno fare dopo, in una sede come questa, destinata ad un pubblico maturo e consapevole), quando saranno lieti di stare semplicemente nel ruolo di lettori che non desiderano sostituirsi agli adulti che Maurice Sendak e Mireille D’Allancè hanno volutamente tenuto ai margini delle loro storie (in Sendak nemmeno si vede la figura della mamma).
“Che rabbia!” e “Nel paese dei mostri selvaggi” sono libri in cui dovete entrare in punta di piedi. Avete il privilegio di osservare la vita segreta di un bambino, non fate l’errore di farvi sorprendere a spiare dal buco della serratura. Rimanete in silenzio e lasciate che lo stupore si impossessi di voi. Non servono coccole e rassicurazioni dopo l’ultima pagina, non serve che portiate la scatola e La Cosa fuori dal libro, non serve lo zuccherino consolatorio. L’unica cosa che serve c’è già: una fetta di dolce e una zuppa ancora calda. Vedrete, basterà.

2 pensieri su “Che rabbia! (…e Nel paese dei mostri selvaggi) – Due albi illustrati a confronto

    1. Cara Alessandra,
      ti ringrazio per questo tuo commento; spero che tu abbia trovato nuovi spunti di riflessione.
      Un caro abbraccio.

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