Incantare
La parola incanto ha la radice latina di canere, cantare. Quando cantiamo, qualcosa si libera dal profondo, specialmente se siamo soli e lasciamo che la voce porti con sé emozioni, note stonate e guizzi di fantasia.
La proposizione in ci invita ad andare verso colui o colei che canta, ci indica il luogo verso il quale dirigere i nostri passi, la meta del nostro cammino. Incanto dunque significa letteralmente andare verso chi canta.
Bruce Chatwin nel suo meraviglioso taccuino di viaggio “Le vie dei canti” che è al tempo stesso un romanzo, un saggio antropologico e il racconto di un’avventura, ci racconta che gli Aborigeni australiani si spostano e si orientano sui loro sconfinati territori seguendo un canto che funge da guida.
Chatwin ripercorre le strade invisibili che gli Anziani, gli Uomini dei Tempi Antichi, percorsero cantando i nomi delle cose: fiumi, montagne, saline e distese di sabbia.
I Sogni, i Totem, sono come briciole che gli Antenati hanno lasciato dietro di sé nel loro viaggio attraverso il paese. Le Piste dei Sogni, le Vie dei Canti segnano la superficie del continente australiano come una ragnatela fittissima e invisibile che impedisce, a chi la sa vedere e ascoltare, di perdersi.
Dunque gli Aborigeni vanno verso chi canta, anche se la voce che seguono è nell’aria, invisibile e sottile, come un sogno. E’ la voce della natura che ha trovato nelle parole dell’uomo uno spazio nuovo in cui esistere e riconoscersi. Cantando gli Antenati hanno creato il mondo, lo hanno nominato, lo hanno reso possibile. Canto e luogo sono connessi così profondamente da spartire, per gli Aborigeni, le stesse origini.
L’incantesimo è un rito magico che pone l’accento sulla parola. Si potrebbe dire che la parola sia la prima magia dell’uomo. La parola è doppia e in quanto tale divide: il nome e l’oggetto prendono posti separati, il nostro pensiero riflette questa dicotomia e il linguaggio diventa uno specchio misterioso in cui non sappiamo più distinguere la cosa dal suo nome.
Quando pronunciamo un incantesimo non possiamo tralasciare l’intonazione della voce, la scelta dei vocaboli e dei verbi e perfino il ritmo del respiro su cui si regge il suono della magia.
L’incantesimo non è la semplice magia del colpo di bacchetta, ma è la consapevolezza del potere della parola che supera i confini del fantastico invadendo la realtà. L’incantesimo, come il canto aborigeno, ha un forte potere creativo e poiché mescola voce e parola e richiama a sé le forze naturali, è in grado di travalicare il concetto di spazio e di tempo.
D’altra parte, lo sappiamo bene, un luogo incantato non è più soggetto alle regole della realtà.
Ubbidire
Il verbo ubbidire è composto dalla proposizione ab e dalla voce latina audere, prestare ascolto; ciò significa che quando chiediamo ad un bambino di ubbidirci lo stiamo invitando a seguire la nostra voce e a venirci incontro.
Siamo soliti pensare all’obbedienza come ad un’imposizione che poco ha a che fare con la volontà e col desiderio naturale del bambino di muovere i propri passi e la propria determinazione verso ciò che lo incuriosisce, gli interessa e lo incanta.
Maria Montessori afferma che la volontà di un bambino non può essere scissa dalla sua voglia di apprendere e che questa naturalmente si risveglia in lui quando ciò che gli chiediamo si aggancia saldamente al suo interesse.
Le proposizioni in e ab dei verbi incantare e obbedire ci dicono che c’è qualcosa di prezioso che non possiamo dimenticare quando vogliamo attirare a noi l’attenzione di un bambino, ovvero la componente fisica che si esprime attraverso il movimento.
Andare verso, avvicinarsi a, presuppongono un moto a luogo, un dirigersi verso qualcuno o qualcosa seguendo l’impulso forte della volontà che si orienta e al tempo stesso viene guidata.
Come far sì che un bambino obbedisca o, meglio ancora, venga incantato è ciò di cui vorrei parlare in questo articolo.
[symple_spacing size=”40px”]Voglio parlare di incantesimi perché mi è capitato in più occasioni di riscontrare una vera e propria magia nella concentrazione che i bambini dimostrano quando la loro volontà viene incuriosita e stimolata: il tempo pare dilatarsi e uno spazio molto piccolo riesce a contenere un intero universo da esplorare.
Ma chi sono gli incantatori e quali sono le parole e i gesti sapienti che portano i bambini a seguire chi insegna?
Irisch l’incantatore
Irisch è un uomo misterioso, parla poco e quando sorride allarga tutto il viso in un’espressione dolce a al tempo stesso sfuggente. Avrebbe potuto fare l’attore con quella cicatrice che gli solca il viso e che tanto ricorda il capitano Achab del romanzo di Herman Melville; invece ha scelto la vita agreste, tra le aspre e verdi colline dell’Umbria, dove gestisce insieme all’amorevole moglie Paola una locanda raffinata che è già di per sé un incantesimo e che, stranamente, assomiglia, vista da lontano, alla prua di una nave intenta a solcare l’ombra scura dei boschi che la circondano.
Frequentiamo la locanda da molti anni ormai e da quando è nato nostro figlio Giulio non c’è stata estate in cui non abbiamo trascorso in Umbria i giorni più caldi di agosto tra il frinire delle cicale e quello dei grilli.
Due anni fa quando Giulio aveva appena 18 mesi abbiamo assistito alla nascita di una prodigiosa amicizia tra lui e Irisch.
Prodigiosa perché Giulio è un bambino dal carattere nervoso che ha difficoltà nell’accettare la mancanza di fluidità tra le mille cose che vorrebbe fare e la loro reale attuazione e Irisch un uomo schivo, cortese certo, ma di indole solitaria. A dire il vero tutti i bambini della locanda hanno per Irisch un’adorazione particolare, perché Irisch è un vero incantatore.
Abbiamo detto all’inizio dell’articolo che l’incantesimo si basa sulla parola; ebbene Irisch le parole le usa con naturale parsimonia, mettendo in una frase solo quelle che servono, non una di più. Il suo accento straniero rende le sue brevi frasi ancora più magiche conferendo loro quella giusta dose di mistero che ogni buon incantesimo dovrebbe contenere. Le parole poi sono sempre legate ad un gesto, un gesto che non ha nulla di fittizio perché la magia non è menzogna e nemmeno artefatto: la vera magia è quella che risveglia i sensi, che rende visibile ciò che prima era nascosto, quella che dialoga con le cose del mondo rivelandone gli antichi nomi e mettendo a nudo la loro essenza.
I gesti di Irisch sono dei rituali, movenze perfezionate nel tempo, veloci coordinazioni di occhi, dita e muscoli.
Osservando un contadino al lavoro noterete con quanta disinvoltura egli vanga il terreno, estirpa erbacce o getta il grano ai polli. I suoi sono gesti capaci di instaurare un dialogo con la terra: le zolle aspre del campo, i tronchi abbattuti dai temporali, i rami tenaci del rosmarino e quelli insidiosi dei rovi, le polle d’acqua dei torrenti e la gramigna delle rupi scoscese hanno insegnato alle mani a lavorare, a prendersi cura del giardino, se per esso intendiamo ciò che vogliamo preservare dalla selvatichezza.
Non esistono scuole in cui imparare simili rituali, l’unica vera palestra è l’esperienza diretta con la vita all’aria aperta.
Irisch possiede l’arte della terra e inoltre ha imparato il dialogo con le macchine: guida (e all’occorrenza aggiusta) il trattore, supervisiona i pozzi idrici, pulisce il fondo della piscina con uno speciale robot, comanda gli erogatori d’acqua del giardino ed è in grado di improvvisarsi in piccoli lavori di manutenzione.
Quando Irisch si porta dietro Giulio non interrompe le sue mansioni; se deve innaffiare le piante del giardino con il tubo dell’acqua chiede a Giulio di aiutarlo e le sue parole e i suoi insegnamenti sono privi di affettazione. Irisch non sorride di più perché ha di fianco un bambino, ma il suo tono è dolce, fermo e sempre rispettoso. A volte Giulio è solo uno spettatore incantato: per nulla al mondo lascerebbe il posto in prima fila mentre Irisch gli chiede di aspettare, in piedi sulla ghiaia, che il trattore sia pronto per partire con lui a bordo. Irisch gli spiega ciò che sta facendo, tenendo viva la sua attenzione con la nuda verità, con l’ossatura di un incantesimo apparentemente semplice.
Per nostra sfortuna non vi è nulla di semplice in un simile incantesimo perché i suoi ingredienti sono tutti assai complessi.
C’è la cura del tempo, ovvero la capacità ormai rara di non affrettare i tempi di un bambino, di lasciare che i minuti si dilatino mentre lui sembra non fare nulla.
C’è la scelta delle parole, parole che nulla hanno a che vedere con presupposti pedagogici o con studiate gentilezze (specifico che non sto parlando di mal celate ipocrisie, ma di quell’atteggiamento molto diffuso di spiegare le cose ai bambini con un tono che nasconde una certa preparazione mentale e psicologica).
C’è infine l’esperienza, il gesto che ha un fine saldamente ancorato alla realtà, alla vita, alla natura. Quanta differenza tra imparare a srotolare un tubo di gomma senza che si annodi per innaffiare le piante che rendono fresco un giardino e costruire bellissimi castelli con pezzi di recupero!
Incantare a scuola
I bambini hanno bisogno, a mio avviso, oggi più che mai di orientare la loro volontà verso qualcosa di vero, di pertinente e di denso.
Le aule piene di bellissimi materiali di scarto con i quali giocare quali parti sollecitano dei bambini? Essi imparano di certo a gestire forme insolite, a sperimentare equilibri, a costruire paesaggi fantastici e a esercitare la propria immaginazione, ma non possiamo accontentarci solo di questo.
Il buon giocattolo e il buon gioco sono solo una parte del lavoro che oggi la scuola deve portare avanti.
L’altra parte è quella di palesare uno scopo per rafforzare la volontà, e questo si può fare solo se il nostro agire è ben ancorato alla realtà, e quindi se il nostro scopo è vero.
Non c’è nulla di più vero della natura. Un albero è già di per sé fine e scopo. Non c’è neppure bisogno di spiegarlo, dice già tutto con la sua ombra nella quale un bambino trova ristoro dal sole, con i suoi rami che ospitano nidi e animali. I cosiddetti materiali naturali presenti ormai in molte scuole e nido d’infanzia sono, a mio avviso, solo un pallido riflesso del vero, un palliativo dietro al quale ci rifugiamo per non ammettere che con quella natura noi non vogliamo avere a che fare nei freddi pomeriggi invernali o nelle piovose giornate d’autunno.
Con quei materiali i bambini costruiscono, giocano, compongono, senza tuttavia realmente collocarli, senza costruire un legame profondo con essi. Sono bellissimi mattoncini, ma la natura è tutt’altro, la vita all’aria aperta è tutt’altro.
Il giardiniere che insegna ai bambini a prendersi cura della terra è un incantatore. Egli guida i gesti verso un fine che non ha nulla di artificioso, accoglie l’errore e senza timore lo corregge perché sbagliare quantità d’acqua può essere fatale per le cipolle, impugnare una chiave inglese senza cognizione di causa può essere pericoloso, non riparare al momento giusto le tegole del tetto potrebbe essere sconveniente al primo temporale.
I bambini hanno bisogno di questi incantesimi, di maestri-giardinieri che li conducano a sé cantando le canzoni della natura.
Ci si può arrivare per gradi, iniziando dalla riorganizzazione del giardino della scuola, facendo uscire i bambini tutti i giorni per molto tempo lasciando che giochino senza commissioni. E se il giardino è un disastro, si potrebbero coinvolgere nella riorganizzazione i bambini, facendogli fare cose serie. Niente fotografie di bambini che zappano per cinque minuti e poi tornano in sezione: se si zappa si zappa, dovessimo tornare fuori tutti i giorni per una settimana. Chi non vuole farlo osserva i compagni. Chi si stanca viene sostituito. Ci saranno molte defezioni all’inizio, i bambini di oggi sono pigri, ma la volontà è un muscolo che va esercitato, con pazienza e costanza.
Si parla tanto della scuola del fare, ma cosa è realmente questo fare?
Sento molti genitori scegliere per i loro figli scuole dell’infanzia dove le maestre sono brave perché “fanno tante cose”. Quali cose?
Varcata la soglia delle elementari incontriamo bambini definiti, da rigorose certificazioni, disprassici, disortottici, dislessici o affetti da discalculia, iperattivi…Io sono sinceramente impaurita da questi termini, mi sembrano così grevi, ma se li analizzo bene hanno tutti a che fare con il movimento e con la volontà. Ob-bedire, in-cantare..
Se incanteremo i nostri bambini essi ci seguiranno, riconosceranno le strade da percorrere e cammineranno.
Ridiamo ai nostri bambini il tempo, la natura e incantatori-giardinieri in grado di ricondurli al vero, di indicargli uno scopo, di rafforzare la loro volontà.
Vorrei maestre e maestri che lascino ai nostri bambini il tempo (tutto e non solo qualche minuto in più), che non siano ossessionati dalle documentazioni, dall’eccessiva intellettualizzazione e da un impoverito concetto estetico. Vorrei non chiudermi tra le gabbie dei vari pensieri pedagogici e vorrei che Loris Malaguzzi, Maria Montessori, Pierina Boranga, Rosa e Carolina Agazzi, Rudolf Steiner, Sergio Neri, John Dewey si ritrovassero sotto un albero a parlare tra loro del bambino in questa contemporaneità.
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