Oh, Harriet! Di Francesco D’Adamo, Giunti 2018.
Vorrei parlarvi di questo libro anche se non mi ha convinta.
Ho pensato fosse importante, quando resta un dubbio in punta di penna, confrontarsi con più lettori possibile. Inoltre più volte e da più parti, mi avete sollecitata a scrivere recensioni non completamente positive adducendo come motivazione il fatto che il senso critico di un lettore possa accendersi anche nel confronto con un parere sfavorevole. Ringraziandovi della fiducia che riponete in me, mi accingo oggi, con cautela ed estremo garbo, a parlarvi del romanzo “Oh, Harriet!” di Francesco D’Adamo.
Ho assistito alla presentazione di questo libro in Casa Giunti per voce dello stesso autore. Le sue parole nei confronti del proprio romanzo sono state appassionate. Anche se non amo quando uno scrittore parla dei propri libri, sono stata colta da curiosità e così, una volta tornata in libreria, mi sono avventurata nella lettura.
E’ un romanzo indubbiamente gradevole. La prosa scorre senza intoppi ed in alcuni passaggi scalda il cuore. La storia è quella realmente accaduta di Harriet Tubman, una schiava nera nata in una fattoria del Maryland. Terzogenita di una numerosissima famiglia, Araminta detta Minty (diventerà Harriet solo in seguito) conosce fin da subito la crudeltà dei padroni bianchi e la fatica del lavoro nei campi e in fattoria. Gracile e minuta le vengono assegnati compiti sgradevoli come quello di liberare le trappole dai grossi topi ragno. A bagno tutto il giorno nella palude, Minty è spesso ammalata e cresce con molta difficoltà. A tredici anni la svolta: un uomo all’emporio del paese, senza ragione, la colpisce alla testa con un pesante bilanciere: “Negra scansafatiche” la chiama e poi BAM, il peso la colpisce all’improvviso. Minty cade a terra quasi priva di vita. Starà male per giorni rischiando di morire. Si salva, ma le conseguenze di quel colpo la accompagneranno tutta la vita: convulsioni, improvvisi attacchi di sonno e soprattutto atroci emicranie. A causa delle sue crisi epilettiche, i padroni iniziano a pensare che Minty sia diventata un pò tocca e dopo quell’episodio la lasciano per lo più in pace. La ragazza volgerà ancor più la situazione a suo favore imparando ad usare le crisi come scuse per non lavorare. Eppure il futuro Generale Tubman (così chiameranno Harriet in seguito) non se ne sta senza far nulla: pensa e impara, ascolta e osserva, e nel giro di pochi anni salverà più di 10.000 neri dalla schiavitù portandoli in salvo oltre il confine, a Philadelphia, con un viaggio pericoloso e lungo più di venti giorni a piedi, per quella rotta che diventerà famosa con il nome di Underground Railroad.
La storia di Harriet è davvero emozionante e stringe il cuore in più di un passaggio. Come tutte le storie che trattano i temi dell’oppressione e dell’ingiustizia, anche “Oh, Harriet!” fa riflettere molto su cosa sia la libertà e la fratellanza. Vale senz’altro la pena leggere questo romanzo per ricordare quante storie vere di coraggio hanno segnato la nostra storia, vicende che spesso cadono nell’oblio, specie in tempi cupi come i nostri.
Eppure qualcosa nel romanzo di Francesco D’Adamo non mi ha convinta e ho dovuto pensarci a lungo per capire cosa fosse.
La conclusione a cui sono arrivata è che questo libro manchi di spessore.
Come fa un romanzo che a tratti fa commuovere a mancare di profondità? Eppure è proprio questo il punto che mi ha tenuta impegnata prima di redigere la sua recensione. L’apparente densità del libro è data dalla storia di Harriet, una storia che non può non colpire e toccare corde profonde in ciascuno di noi, anche nei ragazzi, a cui non negherei la lettura del romando di D’Adamo.
Tuttavia, qui, con i miei lettori adulti mi sento di fare il seguente appunto: la scrittura di Francesco D’Adamo è eccessivamente cinematografica. Attraverso la sua prosa rapida e drammatica vediamo scorrere le scene una per una davanti ai nostri occhi come proiettate sullo schermo di un cinema.
I tanti particolari disseminati nel racconto e il modo in cui ci vengono proposti – in un ordine molto logico e consequenziale – descrivono gli ambienti, i personaggi e le situazioni al pari di una macchina da presa contribuendo a rendere il romanzo un po’ troppo manieristico.
Leggendo le pagine di “Oh, Harriet!” si sente l’eco di numerosi colossal: da “Il colore viola” di Steven Spielberg al “Titanic” di James Cameron (nel romanzo di D’Adamo la drammatica vicenda del transatlantico fa da sfondo all’intervista che Harriet in persona rilascia a Billy Bishop uno squattrinato giornalista di belle speranze che, invece di ascoltare la storia di una povera vecchia, preferirebbe di gran lunga essere con i colleghi sul molo di Philadelphia in attesa di ben altre interviste); da “Dodici anni schiavo” di Steve Mcqueen a “Free State of Jones” di Gary Ross passando per “Il grande Gatzby” di Franz Luberman che qui cito per la patinatura di alcune scene del libro, in particolare quelle che riguardano il giornalista e la sua fidanzata.
C’è troppo cinema nella scrittura di questo libro, il che, a mio avviso fa perdere alla storia spessore letterario. La profondità di un buon libro di narrativa non può essere data solo dalle vicende raccontate, ma dalla capacità dello scrittore di addentrarsi con talento ed esattezza nei personaggi e nelle situazioni, rifuggendo dalla tentazione di descrivere i suoi personaggi con pennellate troppo nette che rischiano di fare di protagonisti interessanti come Harriett Tubman delle macchiette. Lo scrittore non è un costumista, né tanto meno uno scenografo; non è suo il compito di vestire di tutto punto i suoi personaggi godendo di ogni piega del vestito, o di preparare la scena per il direttore della fotografia così da restituirci, come in un film, le scene che vede. Il lettore non è uno spettatore, ma un palombaro che vuole essere guidato nelle profondità degli abissi dove solo la scrittura riesce ad arrivare. E’ ovvio che la scrittura è anche saper vedere, ma è anche e soprattutto usare un sesto senso che solo gli scrittori sanno accendere e che nessun film potrà rendere con altrettanta forza (per questo restiamo quasi sempre delusi quando il nostro romanzo preferito viene trasposto al cinema).
Temo invece che non resteremmo affatto delusi se il libro di Francesco D’Adamo diventasse un film perché il libro è già di per sé una sceneggiatura. Perfino la scena a mio avviso più bella del romanzo, quando la madre di Minty difende suo figlio davanti ai padroni per impedire che anche questo bambino le venga portato via, perfino lì ci sono troppe concessioni visive. E’ tutto troppo preciso: noi siamo la telecamera che si avvicina e si allontana, che inquadra Minty rannicchiata nel ripostiglio ad osservare attonita la scena, per poi stringere in un primo piano l’espressione attonita dei padroni bianchi. Il lettore e l’autore non possono dirigere il film contemporaneamente, stare entrambi dietro la telecamera. Lo scrittore dovrebbe sapere molto di più di noi, portarci oltre la superficie perché è proprio questo che rende la trama personale e verissima per ogni lettore.
Scrivere è anche non dire, lasciare che il lettore venga catturato e avvinto perfino dagli spazi bianchi tra le parole.
Il rischio nel descrivere con troppa precisione visiva le scene è quello paradossalmente di rompere la finzione, di farci sentire una penna un pò troppo compiaciuta scivolare sul foglio; un po’come in quei film dove ad un certo punto, per sbaglio, vediamo l’asta del microfono al margine della scena. Lo scrittore non deve farci sentire il suo sguardo, ma essere ovunque, anche nel cuore e nei pensieri dei suoi personaggi. Se decide di descrivere un vestito, lo fa perché tra le pieghe dell’abito noi possiamo vedere qualcosa dell’anima del personaggio. Perfino laddove il romanzo è uno scambio serrato di dialoghi e situazioni, penso a Ernest Hemingway in “Addio alle armi” qualcosa di misterioso si insinua in noi, un universo sboccia tra le nostre dita mentre leggiamo e niente potrà mai restituirci quelle sensazioni, nemmeno il migliore dei film.
Così succede che il romanzo di Francesco D’Adamo risulti alla fine vacuo, e che una volta concluso (e non escludo un po’ di noia sul finale) non riesca ad ancorarsi davvero dentro di noi. La prosa cinematografica, come la chiamo io, risulta estremamente leggibile, ma anche estremamente prevedibile perché vengono richiamate alla mente scene già viste, dei clichè.
Il finale poi in questi casi, e il romanzo di D’Adamo non fa eccezione, raramente sfugge da una buona dose di retorica e da un troppo facile happy end. Il cerchio della storia si chiude con eccessiva precisione intorno ai personaggi: la fidanzata del giornalista diventa un’agguerrita suffragetta, e lui, oltre a diventare un famosissimo reporter, si batterà tutta la vita per i diritti dei più deboli, fino ad assistere, nell’ultima scena, al discorso di Martin Luter King occupando un posto d’onore tra le sue fila.
Io non credo, se qualcuno se lo stesse chiedendo, che questo modo di scrivere sia stato influenzato dal tipo di pubblico a cui l’autore si rivolge, o almeno è quello che voglio sperare: scrivere per i ragazzi non vuol dire semplificare o rendere tutto più allettante mescolando i linguaggi di diversi tipi di “fiction”. Scrivere per i ragazzi vuole dire più che mai essere autentici.
Che oggi ci sia bisogno di parlare ai ragazzi della storia delle storie del mondo, come direbbe Laura Orvieto, non vi è alcun dubbio. Lasciate questo libro a disposizione, leggetelo insieme la sera o in classe. Ma mi sento di consigliarvi di non spingere il discorso sul razzismo in partenza, leggetelo e basta, magari affiancandogli successivamente la lettura di un capolavoro assoluto come “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee (Feltrinelli, 2013) dove la scrittura sonda davvero gli abissi dell’animo umano. Il romanzo di Francesco D’Adamo è già piuttosto chiaro ed esplicito; non dico sia un libro aspirina perché si avverte, a tratti, un’ispirazione autentica, ma senza dubbio è un libro chiuso e finito in se stesso che non fa mistero di un intento umanitario piuttosto forte. Leggetelo. Mi farà piacere sapere cosa ne pensate ed avere il vostro parere.
4 pensieri su “Oh, Harriet! – Narrativa”
a proposito di Oh Harriet ho letto tutta la recensione, e ovviamente il tuo commento (che mi ha convinto) farà sì che non legga il libro anche se magari trovandolo in biblio o in libreria ci darò un occhio. Di D’adamo avevo letto Il re dell’asteroide e non mi era piaciuto nè come storia nè come stile e ciò ha escluso in seguito un interesse per l’intera sua produzione. suppongo che quando ti riferisci al film Il Grande Gatsby, intenda quello con la regia di Baz Luhrmann…
Gentile Franca,
grazie per il tuo commento. Mi dimentico che da quest’anno sono io l’amministratrice del sito anche per quanto riguada i commenti: scusa per il ritardo di questa risposta e per la tardiva pubblicazione.
Credo valga la pena provare a sfogliare il libro di D’Adamo per capire se la mia analisi sia appropriata; in fondo le recensioni si scrivono per allenare il senso critico del lettore ed è bene che sia così.
Per quanto concerne il Grande Gatsby sì, mi riferivo alla regia di Baz Luhrmann. Giusta intuizione.
Gentile Mediterraneo,
è giusto che ognuno maturi la propria opinione anche in contrasto con le recensioni lette. Il problema, a mio avviso, nel testo di D’Adamo non è la tenuta, ma la mancanza di profondità che non puà essere affidata solo all’intensità del tema trattato. Un caro saluto.